INTRODUZIONE ALLA GEOMORFOLOGIA |
Liberamente tradotto da Earth Changing Surfaces, an introduction to
Geomorphology di M. J. Selby Claredon Press Oxford (1985)
Le nozioni sulla superficie della terra si ottengono da molte discipline:
geofisica, geochimica geologia, climatologia, e molte altre. Nessuna
di queste discipline scientifiche esiste indipendentemente dalle altre,
inoltre tutti gli studiosi di scienze della terra devono possedere un’ampia
conoscenza della struttura, dei materiali, dei processi e delle forme
che compongono la superficie della terra . Le onde che agiscono su di
una spiaggia, il trasporto di sedimento da parte di un fiume sono testimonianze
del continuo mutamento della superficie terrestre, il cui ritmo varia
sia nello spazio che nel tempo. Esiste dunque un aspetto cronologico
legato allo studio della superficie, come elemento dinamico connesso
alla comprensione dell’azione dei processi responsabili della
modellazione di rocce, suoli e strutture geologiche. Strutture, materiali,
processi ed aspetti cronologici dei mutamenti delle forme sono le quattro
componenti essenziali nello studio della natura ed origine della superficie
attuale e formano i paragrafi dello studio che affronteremo.
L’esistenza della vita sulla terra e i mutamenti sulla sua superficie
sono determinati dalle dimensioni del pianeta e dalla sua posizione
nel sistema solare.
Se la terra avesse avuto dimensioni inferiori, la minor forza di gravità
non sarebbe stata sufficiente a trattenere i gas che ne compongono l’atmosfera
dal fuggire nello spazio; se invece le dimensioni fossero state molto
più grandi, la forza di gravità avrebbe trattenuto i gas
entro le rocce, impedendo la formazione dell’atmosfera, dell’idrosfera,
dei suoli e quindi della vita.
La ristretta gamma di temperature che si riscontrano sulla superficie
- da circa -80° C a + 100° C - costituisce soltanto circa il
2% dell’intervallo tra lo zero assoluto e la temperatura della
superficie del sole. E’in questo ristretto intervallo che si realizza
tutta la vita e tutti i processi sulla superficie.
L’ENERGIA PER I MUTAMENTI DELLE FORME |
L’intorno della terra é una sorgente di calore di origine
radioattiva che funziona ad un ritmo definito critico. Se avesse funzionato
più lentamente, tutte le attività geologiche si sarebbero
svolte ad un ritmo più lento: i vulcani non avrebbero emesso
il vapore e gli altri gas che hanno formato l’atmosfera e l’idrosfera;
gli elementi pesanti quali ferro e nichel non avrebbero potuto separarsi
per formare un nucleo liquido, e quindi non si sarebbe formato il campo
magnetico; la terra quindi avrebbe avuto una superficie piena di crateri
e priva di vita come quella della luna. Una terra con una sorgente di
calore più rapida sarebbe stata ugualmente inabitabile a causa
delle continue e diffuse eruzioni vulcaniche e terremoti, e di una densa
atmosfera satura di polveri e di violente scariche elettriche. Forse
in origine la terra aveva una superficie di questo tipo, ma sono l’attuale
moderata velocità di generazione del calore, le moderate escursioni
termiche, l’attuale dimensione e posizione del pianeta nel sistema
solare a rendere possibili i processi geologici, atmosferici e la vita
che compongono il nostro ambiente in continua trasformazione.
Il calore interno genera correnti convettive nel mantello di roccia
allo stato plastico che si trova sotto la rigida superficie della terra.
Si ritiene che le correnti convettive siano il meccanismo con il quale
le rigide placche che costituiscono la crosta vengono separate, spinte
l’una contro l’altra e ruotate, generando i grandi rift
di lacerazione delle placche, quali la linea del Mar Rosso e le Rift-Valleys
africane o alte catene montuose dove le placche collidono, come nell’Himalaya.
Inoltre il moto delle placche origina i terremoti e l’alto flusso
di calore verso la superficie lungo i margini delle placche, causando
la formazione dei vulcani.
Questi processi geotermali interni sono detti “endogeni”
mentre la le forze esterne che agiscono alla superficie e la cui energia
deriva dalla radiazione solare, si chiamano “esogeni” fig.
1.1.
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Foto 7.1 Esempio di
disgregazione per fogliettamento, prodotta per termoclastismo;
Ande argentine.
(Foto G. Paliaga)
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Fig. 1.1 Schema semplificato
delle sorgenti di energia per i processi geomorfologici. |
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La radiazione solare assorbita dalla terra genera i moti convettivi
atmosferici (la circolazione dei venti), l’evaporazione dell’acqua
di mare, fiumi e laghi, attivando così quell’interscambio
di acqua tra superficie terrestre ed atmosfera noto come “ciclo
idrologico”; fornisce inoltre l’energia per i processi biologici.
La rotazione dei pianeti e le loro posizioni reciproche, in particolare
quelle di sole, luna e terra, generano le maree sia marine, con effetti
evidenti lungo le coste, che terrestri sulle rocce della crosta. La
forza gravitazionale genera energia in maniera meno evidente ma, attraendo
ogni corpo verso il centro della terra, fornisce l’energia potenziale
alle rocce ed ai suoli che si trovano in posizione elevata.
Le forme visibili sulla superficie terrestre non si sono formate istantaneamente.
Le più piccole, come le ondulazioni nelle dune di sabbia, possono
svilupparsi in pochi minuti, ma le grandi strutture di dimensioni continentali,
o le unità continentali come le catene montuose o estese pianure,
hanno avuto una evoluzione di decine o centinaia di milioni di anni.
In generale si può affermare che più estese sono le forme
e più lunga e complessa è stata la loro evoluzione; di
conseguenza le metodologie usate per il loro studio devono essere adeguate
alle dimensioni (tab. 1.1).
Le condizioni ambientali sulla superficie terrestre non sono costanti:
il clima cambia in parte perchè la quantità di radiazione
solare trattenuta nell’atmosfera terrestre non é costante,
ed in parte perché variano sia la composizione dell’atmosfera
che le superfici di continenti ed oceani. Inoltre il flusso di calore
geotermico non é costante in tempi geologici e varia da una zona
all’altra della crosta. Questi cambiamenti, insieme con la lenta
e graduale evoluzione della vita, e quindi il variare dei processi biologici,
comportano che il disfacimento delle rocce, ed il loro trasporto, siano
stati diversi nelle ere passate rispetto ad oggi. Molti processi che
modellano le forme sono controllati o fortemente influenzati dagli organismi.
Un esempio evidente è fornito dall’azione protettiva esercitata
dalla vegetazione sul suolo. Settanta milioni di anni fa, sebbene piante
ed arbusti coprissero molti rilievi, la copertura erbosa non era ancora
sviluppata ed é probabile quindi che i processi di erosione procedessero
in maniera molto più intensa. Gli animali inoltre, in particolare
l’Homo sapiens, hanno contribuito al rimodellamento della superficie
terrestre, specialmente negli ultimi mille anni. La condizione ritenuta
“normale” della superficie terrestre non prevede né
la presenza di coperture permanenti di ghiaccio, né di vaste
calotte glaciali. Negli ultimi venti milioni di anni (20My) ed oltre,
grandi volumi di ghiaccio hanno ricoperto l’Antartide e, negli
ultimi quattro milioni di anni, anche la Groenlandia. Sui continenti
dell’emisfero Nord, negli ultimi due milioni di anni, il ghiaccio
é avanzato ed arretrato periodicamente. Inoltre, nell’ultimo
milione di anni, l’estensione dei ghiacci nella parte settentrionale
dell’America del Nord e dell’Europa si è ripetuta
secondo cicli piuttosto regolari, con periodi freddi, caratterizzati
da importanti accumuli di ghiaccio e durati tra 70 e 100 Ky e periodi
intermedi con clima simile a quello attuale, durati 10-30 Ky. Contemporaneamente
all’accumulo ed allo scioglimento dei ghiacci, in altre zone del
globo si sono verificate oscillazioni climatiche, con variazioni di
temperatura, precipitazioni.
Gli intensi cambiamenti climatici che hanno caratterizzato gli ultimi
20 Ky sono stati accompagnati dai maggiori movimenti della crosta terrestre.
Le grandi placche, che formano la superficie rigida della terra, si
sono mosse l’una rispetto all’altra ad ritmo dell’ordine
di 10 cm/anno, mentre il sollevamento delle catene montuose è
avvenuto ad un ritmo di 1cm/anno. Terremoti, eruzioni vulcaniche e abbassamenti
crostali hanno contribuito inoltre a modificare la superficie. Naturalmente
i processi esogeni ed endogeni del passati, non si sono verificati con
le stessa intensità e distribuzione attuali: anche i processi
dominanti in una determinata zona non sono costanti. Ciò che
non é cambiato sono le leggi fisiche e chimiche fondamentali
che governano lo sviluppo e le modifica del substrato roccioso. La comunità
scientifica considera queste “leggi naturali”
come immutabili, secondo quello che viene definto principio dell’attualismo.
Variazioni in intensità, natura e distribuzione dei processi
hanno talvolta lasciato la loro impronta sulla superficie terrestre.
Ad esempio antichi suoli possono essere rimasti sepolti da depositi
più recenti alla base di una collina, così come depositi
di frammenti di roccia da un ghiacciaio ormai arretrato. Questi depositi
testimoniano i processi che nel passato hanno agito sul paesaggio, dimostrando
come l’attuale superficie del suolo sia determinata dall’evoluzione
temporale e sovrapposizione di tali processi.
Si ritiene che l’età della terra sia di circa 4600 miliardi
di anni (4,6 Gy); la roccia più antica conosciuta ha un’età
datata in circa 3,8 Gy. I geologi, usando le testimonianze lasciate
dall’evoluzione della vita sulla terra, hanno costruito una scala
cronologica di tipo relativo fig 1.2. Le più lunghe unità
di tempo sono le ere, suddivise in periodi, che a loro volta sono divise
in epoche. I periodi vengono denominati in base alla località
geografica in cui si trovano le formazioni, ossia vasti affioramenti
rocciosi geneticamente riferibili a quel determinato intervallo temporale;
l’individuazione delle formazioni viene fatta nelle località
in cui sono più evidenti oppure dove sono state studiate per
la prima volta. Il periodo Giurassico, ad esempio, ha preso il nome
dai monti Giura della frontiera Franco-Svizzera. La correlazione tra
gruppi di rocce della stessa età, e la suddivisione del tempo
geologico, dal primissimo Paleozoico all’attuale, si basa sull’associazione
degli organismi fossili che vengono ritrovati nelle rocce stesse.
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Ai fini geologici la
scala di tempo deve necessariamente coprire tutto il periodo di
formazione delle rocce, mentre il paesaggio attuale si è
sviluppato durante un piccolo intervallo di tempo. I bacini oceanici
non sono più antiche di 200 My, così come le più
antiche pianure della terra si sono sviluppate nello stesso intervallo
temporale.
La maggior parte dei paesaggi hanno origini molto più
recenti, risalendo a prima dell’inizio dell’era Cenozoica
e si sono formati, più frequentemente, negli ultimi 20-30
My.
I terrazzi fluviali possono essere datati a meno di 20 Ky, mentre
molte frane o gole soltanto pochi giorni o anni. Quindi l’intervallo
di tempo al quale é interessato il geomorfologo parte dal
medio-tardo Cenozoico ad oggi, con particolare rilievo al Quaternario.
L’istante del passaggio al Quaternario non trova d’accordo
tutti gli studiosi, ma viene generalmente posta tra gli 1,8 ed
i 1,6 My.
Il metodo di datazione geologica tradizionale, utilizzando l’evoluzione
di specie fossili, é un metodo di tipo relativo, ossia
in cui l’età di un fossile o di un’unità
rocciosa viene stabilita relativamente a fossili ed unità
più recenti. Di conseguenza la datazione relativa si basa
sull’interpretazione di sequenze di eventi e su sequenze
stratigrafiche, mentre i metodi di datazione assoluta forniscono
l’età in anni.
Molti metodi di datazione relativa si basano sull’applicazione
di uno o più dei tre principi basilari della stratigrafia:
1. Il principio di sovrapposizione, secondo il quale, in una successione
non troppo deformata di rocce stratificate (strati), lo strato
più vecchio giace alla base, ricoperto via via da quelli
più recenti. Questo principio é alla base della
cronologia relativa di ogni strato e dei fossili in esso presenti.
2. Il principio dell’originaria orizzontalità,
il quale stabilisce che, poiché le particelle sedimentarie
si separano dai fluidi per l’azione della forza di gravità,
la stratificazione originaria deve essere; quindi gli strati molto
inclinati, hanno subito deformazioni successivi.
3. Il principio dell’originaria continuità
laterale, secondo il quale gli strati originari si estendevano
in tutte le direzioni fino a ridursi ad uno spessore nullo, o
a terminare contro i bordi dell’originario bacino di deposizione.
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Fig. 1.2 Scala geocronologica
per il Fanerozoico. La scala è in continua revisione |
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L’età assoluta delle rocce, e quindi delle divisioni della
scala del tempo geologico, viene ottenuta attraverso misure di isotopi
radioattivi. Per determinare l’età di una roccia occorre
che in essa sia presente un minerale che, nell’istante di originaria
cristallizzazione, contenesse atomi di un isotopo di radioattivo. Ciascun
isotopo originario, detto isotopo padre, decade in isotopo figlio, il
quale rimane nello stesso cristallo. La velocità di decadimento
é generalmente espressa in termini di “periodo di semitrasformazione”
che é il tempo necessario affinché decada la metà
del numero originario di atomi radioattivi. Quando un elemento radioattivo
viene ad essere incluso in un minerale, alla fine del primo periodo
di semitrasformazione ne rimane la metà; alla fine del secondo
periodo di semitrasformazione, ne rimane un quarto; alla fine del terzo,
ne rimane un ottavo, e così via. Se si riportano i dati in un
grafico si può vedere che la velocità di decadimento é
una funzione di tipo esponenziale (fig. 1.3).
Al fine di datare una roccia ignea, da un campione si estraggono cristalli
di zircone, muscovite o biotite. Tali minerali contengono gli isotopi
radioattivi 235U e 238U che si trasformano gradualmente in 207Pb e 206Pb
rispettivamente. I cristalli si possono disciogliere fino a portare
in soluzione l’Uranio e il Piombo; i rapporti 235U:207Pb e 238U:206Pb
possono essere misurati con uno spettrometro di massa. Supponendo che
tutti gli isotopi di Uranio e Piombo fossero presenti nel cristallo
dall’istante di formazione, e che nessun isotopo figlio fosse
originariamente presente, si può calcolare l’istante di
cristallizzazione, essendo costanti e note da accurate misure di laboratorio
le velocità di decadimento di tutti i comuni isotopi radioattivi.
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Fig. 1.3 Decremento
del numero di atomi radioattivi in funzione del tempo. Se N0 indica
il numero iniziale di atomi padre ed N il numero dei rimanenti
all’istante t, il processo di decadimento può essere
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espresso secondo l’equazione: dove
n indica il periodo di semitrasformzione del sistema considerato.
Le serie di decadimento degli isotopi di Uranio e Piombo, e di Rubidio
e Stronzio sono utili per datazione di minerali più vecchi di
10 My e pertanto vengono utilizzati raramente dai geomorfologi; il decadimento
del Potassio-40 in Argo-40 (40K:40Ar) può essere invece usato
per datare minerali di quasi tutte le rocce ignee e metamorfiche entro
i 100 Ky di età, ed é quindi di grande importanza per
datare sia rocce che ceneri vulcaniche.
L’acqua di mare contiene in soluzione un’apprezzabile quantità
di Uranio, ma praticamente nessuno dei suoi isotopi figli. Ciò
implica che gli organismi dotati di scheletro carbonatico come il plankton,
i coralli, i bivalvi, così come i carbonati non organogeni, abbiano
assorbito uranio, ma nessuno degli isotopi figlio. Supponendo che un
campione di carbonato sia rimasto un sistema chiuso, senza possibilità
di acquisire o perdere isotopi figlio, la quantità di tali isotpi
della serie dell’Uranio che in esso si ritrova, fornisce una misura
dell’età del campione stesso. Le proporzioni di Torio-230
(230Th) e di Protoattinio-231 (231Pa) presenti, possono essere usate
per stabilire età fino a 300 Ky e 150 Ky rispettivamente. Il
metodo del 230Th é risultato di fondamentale importanza nella
datazione dei coralli, e quindi nella datazione delle variazioni del
livello marino.
I materiali organici più età inferiore ai 40 Ky vengono
normalmente datati usando il carbonio-14 (14C) in essi contenuto. Durante
la crescita, piante ed animali, incorporano nei tessuti una piccola
quantità di 14C contenuto, insieme agli altri isotopi del carbonio,
nella CO2 atmosferica. Alla morte dell’organismo l’assorbimento
cessa e la relativa quantità di C nei tessuti risulta nello stesso
rapporto presente nell’atmosfera (si ritiene che tale rapporto
sia rimasto praticamente costante durante gli ultimi 100 Ky); tale rapporto
decresce dopo la morte a causa del decadimento radioattivo del 14C.
La quantità di 14C rimasta, viene misurata dal conteggio delle
particelle in decadimento nel campione, conteggio che è utilizzato
per stabilire l’istante della morte dell’organismo. Il metodo
del conteggio delle particelle in decadimento permette di determinare
età dell’ordine di 40 Ky B.P. (before present), consentendo
svariate applicazioni. A partire dal 1975 sono stati sviluppati nuove
metodologie che, mediante l’acceleratore di particelle, permettono
di misurare direttamente gli atomi di 14C nel campione, anziché
conteggiare le particelle che decadono; con tali tecniche si possono
datare materiali fino a 75 Ky di età e, in alcuni casi, fino
a 100 Ky. La datazione mediante 14C é di enorme importanza ai
fini dello studio dell’evoluzione delle forme ed in archeologia,
nell’arco degli ultimi 40 Ky sebbene alcuni dati siano poco attendibili
a causa del fatto che i campioni sono stati contaminati da carbonio
più vecchio (lignite o carbone), o più recente, trasportato
dall’acqua che filtra nel terreno. Per questa ragione i materiali
organici presenti nei suoli, i gusci di organismi marini ed i reperti
ossei risultano difficoltosi da datare in modo attendibile.
ALTRI METODI DI DATAZIONE |
Le tracce di 238U contenute in vetri vulcanici e minerali come apatite,
zircone, titanite e mica, permettono il metodo di datazione delle traccia
di fissione. L’238U decade spontaneamente per fissione (disintegrazione
esplosiva in due frammenti). La velocità di fissione è
molto bassa; la fissione spontanea dell’238U ha un periodo di
semitrasformazione di circa 8*1015 anni.
La quantità di energia sviluppata in tale processo spontaneo
é invece relativamente grande e pari a circa 200 meV; i frammenti
risultanti percorrono una traiettoria di circa 10 micrometri (mm) nel
materiale circostante prima di essere fermati. La traccia risultante
può essere evidenziata irrorando il vetro o il cristallo con
acido fluoridrico. Il numero di tracce incise per fissione dipende solo
dal tempo e dall’Uranio contenuto dal campione. Se é noto
il contenuto di Uranio del campione, si può dedurre l’età
mediante le tracce di fissione dal conteggio delle stesse. Questo metodo
ha assunto importanza sempre crescente in regioni vulcaniche quali la
Nuova Zelanda, il Giappone e parte degli Stati Uniti, dove ha permesso
di determinare l’età non soltanto di eventi vulcanici,
ma anche di sedimenti, suoli, e di altri depositi contenti ceneri vulcaniche.
Il metodo viene usualmente applicato a materiali di età compresa
tra 1 Ky e 5 My.
La dendrocronologia, o cronologia degli anelli di
accrescimento degli alberi, é una tecnica usata per datare legno
“vivente”.
Le cellule del legno che forma gli anelli di crescita annuale degli
alberi presentano un ampio lume (spazio tra cellule) se crescono in
primavera, che invece risulta più piccolo per quelle che crescono
in estate ed in autunno. Il numero degli anelli delle cellule estive
o invernali è un indicatore dell’età dell’albero.
Tale tecnica é utilmente applicata per datare depositi recenti
quali quelli lasciati da ghiacciai e fiumi, in cui quindi può
essere semplicemente stimato il periodo di colonizzazione da parte degli
alberi.
La maggior parte delle età dendrocronologiche si riferiscono
agli ultimi 1-2 ky, ma sono state prodotte anche cronologie fino a 5-7.5
Ky per studi sui climi del passato e reperti archeologici; tali cronologie
vengono ricostruite dalla sovrapposizione delle strutture di anelli
che mostrano testimonianze riconducibili ad eventi particolari, quali
siccità o periodi particolarmente piovosi.
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Fig. 1.4 Esempi di come
i depositi riscontrabili sul terreno possono essere usati come
indicatori cronologici delle forme. Le forme superficiali non
possono essere più antiche dei materiali che si ritrovano
al di sotto di esse, ma possono essere più recenti del
marker più giovane trovato nella regione. La quasi totalità
dei paesaggi è composta da forme con un ampio intervallo
di età. |
inalterato. In depositi di materiali simili, ma esposti per periodi
diversi all’azione di fiumi o ghiacciai, é spesso possibile
scoprire differenze nella profondità e nel colore dello strato
di alterazione. Questa osservazione non fornisce una “età”
del tempo trascorso dalla deposizione (età assoluta), ma permette
di cartografare ed identificare materiali relativi a differenti fasi
di deposizione. Ad esmpio il vetro vulcanico riolitico (ossidiana) subisce
un’alterazione progressiva attraverso il lento assorbimento di
acqua. Lo spessore dello strato esterno idratato, o il numero degli
strati idratati e scheggiati da un ciottolo, sono usati come indicatori
dell’età relativa del deposito sul quale il ciottolo si
trova. In alcuni siti i dati relativi all’idratazione dell’ossidiana
possono essere inseriti in una scala di tempo fornita dalla datazione
di una roccia vulcanica mediante il rapporto 40K:40Ar.
Strato di alterazione di una roccia ad opera degli
agenti chimici, attorno ad un nucleo
La “lichenometria” é un altro metodo
di datazione relativa in cui si assume che il diametro di un lichene
sia direttamente proporzionale al tempo di crescita. Il metodo é
semplice da applicare poiché richiede solo l’uso di un
righello, ed é stato usato per datare svariate morene glaciali
formatesi nell’ultimo Ky.
Paleomagnetismo
La datazione paleomagnetica é un metodo di crescente importanza
nella correlazione di depositi. Il metodo si basa sulla similitudine
tra il campo magnetico terrestre e quello generato da un’ipotetica
barra di materiale magnetizzato posta al centro della terra stessa.
L’asse del magnete immaginario (asse geomagnetico) emerge dalla
superficie della terra ai poli magnetici, che non coincidono con quelli
geografici; l’asse magnetico forma attualmente un angolo di circa
20 gradi con quello geografico. Durante le ere geologiche il campo magnetico
terrestre ha subito numerose inversioni di polarità (inversione
della polarità magnetica) mentre la posizione dell’asse
é rimasta sostanzialmente invariata.
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L’inversione si
manifesta con la diminuzione dell’intensità del campo
magnetico fino allo zero, seguita da un aumento in polarità
inversa. Gli intervalli di tempo tra le inversioni di polarità
appaiono irregolari. La sequenza di tali inversioni è testimoniata
nelle rocce vulcaniche a causa della presenza di ossidi di ferro
e di titanio; il basso contenuto di tali ossidi nelle lave basaltiche
permette la registrazione solo delle variazioni estreme. Ad alta
temperature, a causa dell’agitazione termica, i minerali
presenti in una lava fusa non sono magnetizzati ma quando la temperatura
scende al di sotto di una temperatura critica, caratteristica
di ogni elemento magnetico e definita punto di Curie (770°C
per il ferro), i magneti elementari che compongono il minerale
neoformato assumono un’orientazione parallela alle linee
di forza del campo magnetico terrestre. Con l’ulteriore
raffreddamento il magnetismo termico residuo rimane definitivamente
impresso nella roccia solida e costituisce una testimonianza della
direzione del campo magnetico terrestre al momento dell’attraversamento
della temperatura di Curie, ossia del paleomagnetismo. L’istante
di inversione può essere ottenuto dalla datazione mediante
il metodo del rapporto 40K:40Ar nel basalto cristallizzato prima
e dopo l’inversione.
Inoltre anche alcuni minerali prodotti per alterazione, come
l’ematite (Fe2O3) ed altri minerali magnetici deposti in
sedimenti oceanici e lacustri, conservano testimonianze della
polarità al tempo della loro deposizione. Questo magnetismo
sedimentario permette di correlare i prodotti dell’erosione,
i suoli ed i sedimenti con i dati ottenuti dall’analisi
dei basalti. La sequenza delle inversioni durante il Cenozoico
é conosciuta con un buon grado di accuratezza ed è
stata datata (fig. 1.5).
La polarità uguale a quella odierna é riferita ad
un’epoca “normale” e la polarità opposta
ad un’epoca definita “inversa”. Le epoche geomagnetiche
durano per centinaia o migliaia di anni ma possono essere interrotte
da eventi di polarità di decine o migliaia di anni. La
scala cronologica geomagnetica é comunemente usata per
datare e correlare depositi marini e rocce ignee, ma può
essere anche usata per correlare e datare alcuni depositi terrestri. |
Fig. 1.5 Scala cronologica
geomagnetica per il Cenozoico, versione del 1979. Differisce dalle
precedenti versioni ed è suscettibile di continue variazioni
(Mankinen e Dalrymple, 1979) |
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OBIETTIVI E STORIA DELLA GEOMORFOLOGIA |
La geomorfologia può essere definita come la scienza che studia
la natura, la storia delle forme ed i processi di alterazione, erosione
e deposizione che le creano. Pertanto essa si avvale del lavoro di geologi,
geografi, pedologi ed idrologi. Principi di geomorfologia si trovano
negli scritti dei primi uomini di scienza, quali Aristotele e Leonardo
da Vinci, ma la moderna scienza della terra inizia a svilupparsi solo
nel secolo XVIII quando alcuni ricercatori riconoscono le testimonianze
visibili sul terreno, considerandole prioritarie rispetto alla “verità
rivelata” derivata dall’interpretazione letterale della
Bibbia.
Tra i primi e più importanti lavori vi é “La teoria
della terra, con prove ed illustrazioni.” di James Hutton che
fu pubblicata nel 1788 in un volume degli Atti della Royal Society di
Edinburgo. In questo scritto Hutton nega la possibilità che la
terra sia stata creata durante i sei giorni della Creazione, descritti
nel libro della Genesi, e la possibilità che eventi catastrofici
- come l’inondazione durante la quale Noè varò la
sua arca - abbiano modellato la superficie della terra. Hutton dal suo
grande lavoro sul campo, dedusse che il paesaggio viene modellato dalla
lenta azione di erosione operata dall’acqua sulla superficie terrestre;
inoltre, dai materiali erosi, trasportati dai fiumi e deposti in mare
si formano nuove rocce sedimentarie. Hutton postulò il sollevamento
di queste rocce per formare nuovi rilievi che verranno nuovamente erosi
dall’azione dell’acqua. Nei continui processi di erosione,
sedimentazione ed innalzamento Hutton vide ciò che definì
“Nessuna traccia dell’inizio nessuna prospettiva della fine”
ovvero la base di quello che sarebbe diventato il principio
dell’uniformismo.
Il lavoro di Hutton fu assai poco apprezzato durante la sua vita, in
parte perché gli atti della Royal Society di Edimburgo avevano
scarsa diffusione, in parte perché il suo modo di scrivere era
complesso e spesso oscuro. Egli, tuttavia, ebbe maggior fortuna presso
il suo amico John Playfair, professore di matematica all’Università
di Edimburgo, il quale credeva nella validità del lavoro di Hutton
e possedeva uno stile più chiaro. Playfair commentò e
riscrisse il lavoro di Hutton e nel 1802 pubblicò il suo libro
“Illustration of the Huttonian theory of the Earth.”
Playfair aggiunse molti contributi originali e fornì spiegazioni
dettagliate sui corsi d’acqua, sull’erosione e sulla formazione
delle spiagge. Il lavoro sui fiumi fu particolarmente importante, evidenziando
che
- Sono i fiumi ad incidere le valli
- l’angolo di pendenza di ciascun fiume é il risultato
dell’equilibrio tra velocità e scarico dell’acqua
con la quantità di materiale trasportato;
una rete fluviale é il risultato del mutuo equilibrio delle
parti che la costituiscono.
La prima affermazione é nota come legge di “Playfair”,
la seconda anticipa il moderno concetto di pendenza mentre la terza
rappresenta il principio delle “giunzioni concordi” .
Il lavoro di Playfair provocò molti tentativi di contestazione
e non venne accettato integralmente fino a quando Charles Lyell, un
brillante oratore e scrittore pubblicò il lavoro “The Principles
of Geology” che subì una serie di revisioni nelle molte
edizioni dal 1833 al 1875. Lyell fu uno straordinario viaggiatore e
fu in grado di interpretare le osservazioni di Playfair in modo tale
che Ramsay, il primo direttore del British Geological Survey, così
disse di lui: “Noi raccogliamo i dati e Lyell ci insegna il loro
significato.” Lyell fu il maggior seguace del principio
dell’uniformismo e il maggior oppositore dei sostenitori
delle idee catastrofiste, specialmente quelle del Diluvio Universale.
Uno dei maggiori difetti del lavoro di Lyell fu che, verso la fine
della vita si convinse che i corsi d’acqua non riescano ad erodere
la superficie terrestre fino a formare le pianure, ma che l’erosione
marina dovesse essere responsabile di tale spianamento e che le scarpate
di certe zone dell’Inghilterra sudorientale non fossero altro
che antiche scogliere.
Così la teoria del Diluvio Universale stentò ad essere
superata in quanto ché si diffuse la convinzione che potesse
essere portata a sostegno della teoria di Lyell. In molte regioni europee
vennero ritrovati depositi contenenti conglomerati e ghiaie, erroneamente
noti come drift (accumuli alluvionale), in posizioni lontane da quella
che era stata individuata come la probabile zona di origine e talvolta
in posti inaspettati come la sommità di colline. L’ovvia
conclusione fu che essi erano stati deposti dal diluvio Universale.
Nel 1836 Jean de Charpentier, direttore delle miniere per il cantone
di Vaud, e Louis Agassiz, professore di Storia Naturale a Neuchâtél
ed esperto di pesci fossili riconosciuto a livello mondiale, esaminarono
i ghiacciai intorno al Monte Bianco. Charpentier convinse Agassiz dell’azione
erosiva e di trasporto dei ghiacciai. La teoria delle glaciazioni non
si deve quindi ad Agassiz - questo onore viene ripartito tra un gran
numero di naturalisti svizzeri e francesi, guide alpine ed ingegneri
– sebbene, in seguito alla pubblicazione dei suoi “Studi
sui ghiacciai” del 1840, venne accettata la nuova interpretazione
riguardo all’origine glaciale dei drift (che oggi vengono definiti
tilliti, massi erratici, farina glaciale). Agassiz elaborò una
teoria su un’era glaciale, ipotizzando che il ghiaccio formasse
una calotta che venne frantumata dalla risalita delle Alpi; gli enormi
icebergs così formati, trasportarono blocchi di detriti di roccia
dalle montagne fino alle pianure circostanti, ove rimasero dopo la fusione
del ghiaccio.
Probabilmente la maggior parte delle idee di Agassiz sulla glaciazione
erano errate, ma, con la sua opera divulgativa, diede prestigio alle
idee di uomini meno noti di lui.
Comunque, durante i numerosi viaggi, Agassiz dimostrò l’applicabilità
delle teorie sulla glaciazione alle high-land della Gran Bretagna e,
successivamente, al Nord America. In Britannia Lyell diede la più
convincente testimonianza a favore dell’origine glaciale dei depositi
considerati alluvionali, il ché giocò un ruolo di primaria
importanza per il riconoscimento della teoria glaciale. Le idee elaborate
per le regioni europee furono divulgate in Nord America da Lyell durante
i suoi viaggi nell’Est degli U.S.A. e nel Sud-Est del Canada,
a da Agassiz durante le lezioni tenute a Boston nel 1846 e successivamente
quando si trasferì in America
Le indagini compiute dall’United States Geographycal and Geological
Survey negli Stati Uniti Occidentali durante la seconda metà
del XIX secolo, furono la base per numerosi ed importanti contributi
alla teoria geomorfologica. Tra questi quelli forniti da J.W. Powell,
C.E. Dutton, e soprattutto da G.K. Gilbert.
Nelle regioni semiaride le relazioni tra forme e processi e tra forme
e strutture geologiche, furono allo stesso tempo più chiare e
meglio dimostrate che nelle regioni coperte da vegetazione dell’Est
degli U.S.A. e dell’Europa. Le grandi dimensione di forme quali
il Grand Canyon in Colorado testimoniano il potere erosivo dei fiumi,
sebbene la spiegazione che fornì Powell sull’evoluzione
del Plateau del Colorado fu pionieristica in altro senso; egli aggiunse
alle teorie geomorfologiche lo sviluppo di una nuova classificazione
dei rilievi, secondo genesi e strutture che le compongono. Inoltre produsse
una classificazione delle dislocazioni, delle valli ed una classificazione
genetica dei reticoli di drenaggio.
La sua classificazione dei sistemi di drenaggio implicava le nuove
idee circa il drenaggio sovraimposto e quello di drenaggio
antecedente; associata a questa teoria fu elaborata l’idea
secondo cui la storia fisica di una regione possa essere in parte interpretata
attraverso lo studio del suo sistema di drenaggio in relazione alla
strutture geologiche. Probabilmente però la nuova e più
autorevole idea che Powell ebbe fu quella di livello di base.
G.K. Gilbert fu, per molti anni, assistente di Powell e, probabilmente,
fu lo studioso più eminente di processi geomorfici evolutivi.
Il “Report on the Geology of Henry Mountain“ di Gilbert
é il primo grande trattato geologico circa i meccanismi di erosione
fluviale. Gilbert scrisse in un inglese più comprensibile rispetto
ai suoi predecessori su temi quali alterazione ed erosione, rendendo
più sistematica la trattazione sua e di Powell su erosione, trasporto,
deposito ed equilibrio. Attraverso concetti quali “legge delle
pendenze uniformi, legge dei pendii, legge degli spartiacque e legge
della struttura” espresse le basi delle conoscenze moderne sulla
resistenza delle rocce all’erosione e sulle relazioni tra pendenza,
energia disponibile all’erosione e corrente di trasporto: il suo
lavoro sui corsi d’acqua culminò con la monografia del
(1914) “The transportation of debris by running water.“
Sfortunatamente il lavoro pionieristico di sviluppo della teoria di
Powell e Gilbert venne oscurato dalla vasta pubblicazione di quaderni
e libri di W.M. Davis che, di tanto in tanto, sembrò confondere
le proprie teorie con i dati fondamentali lasciandosi coinvolgere da
speculazioni sull’evoluzione piuttosto che sulla comprensione
dei meccanismi di trasformazione del paesaggio. Nei paesi di lingua
inglese la teoria di Davis del ciclo di erosione normale divenne più
nota di quanto non meritasse. Ciò fu dovuto in parte ai suoi
allievi C.A. Cotton in Nuova Zelanda e S.W. Wooldridge in Inghilterra.
Il ciclo di erosione ed il criterio ad esso associato di evoluzione
del denudamento verrà discusso più approfonditamente in
seguito.
Nel corso del XX secolo si trovano tre approcci alternativi all’interpretazione
proposta da Davis. Il tedesco Walter Penck fece dell’instabilità
e dei movimenti della crosta il cardine del suo approccio allo studio
delle forme ed ai pendii. In contrasto con Davis, Penck mise in evidenza
come i movimenti crostali siano spesso continui, di intensità
variabile e di lunga durata. Egli tentò di usare la forma dei
pendii come indicatori della velocità di sollevamento, in particolare
delle variazioni di velocità. Penck esaminò, ad esempio,
i profili a gradini di molte creste nei rilievi della Foresta Nera,
considerandoli testimonianza delle fasi di sollevamento, intervallate
da periodi di relativa stabilità. L’interesse circa l’instabilità
della crosta nel tardo Cenozoico, definita “neotettonica”,
é ancora oggi argomento di rilevante interesse nei lavori di
molti ricercatori russi, in particolare Yu. A. Meschirikov e I.P. Gerassimov.
Il secondo argomento é quello della geomorfologia dinamica ed
il terzo é quello dello studio dei processi.
L’influenza del clima sui processi responsabili della modellazione
del paesaggio (morfogenesi) e sulle forme associate era risultato evidente
ai primi esploratori dell’America dell’Ovest, sebbene altrove
i contributi più significativi in questo campo si ebbero da ricercatori
tedeschi: Von Richtofen in Asia, ed, in Africa, J. Walther e S. Passarge.
Tutti e tre avevano lavorato in aree desertiche evidenziando l’efficacia
dell’azione del vento. In quell’epoca poco si conosceva
circa i cambiamenti climatici ed i tre ricercatori non ritenevano che
lo scorrere delle acque fosse stato il maggior responsabile nella formazione
del deserto.
I concetti di zonalità e l’influenza
del clima in geomorfologia devono molto al lavoro del pedologo russo
Vasilü Dokuchayev, il quale, con i suoi lavori d’avanguardia,
influenzò studiosi europei come E. de Martonne il cui “Le
climat facteur du Relief”, pubblicato nel 1913, si allinea con
gli atti del simposio di Düsseldorf del 1926 “Morphologie
der Klimazonen“, pubblicati da F. Thorbecke. Altri importanti
lavori sulle forme ed il clima comprendono: “Le Sahara 2 “
(1923) di E.F. Gautier, lo studio di Mortensen sul deserto settentrionale
cileno (1927), la “Geomorphologie der feuchten Tropen” (1935)
di Karl Sapper, ed i più recenti studi di J. Büdel in Germania
e di J. Tricart ed A. Cailleux in Francia, insieme alla breve raccolta
di saggi di Birot “Le cicle d’erosin sous le different climats”
del 1960.
In ambito europeo la geomorfologia quantitativa e lo studio dei processi
hanno una storia relativamente lunga e basata sulla necessità
da parte degli ingegneri di comprendere il potere di erosione fluviale
al fine di controllare i torrenti alpini. A questo riguardo Il lavoro
“Etudes sur les torrents des Hautes Alpes“ (1841) di Alexandre
Surrel è allineato con il lavoro di G.K. Gilbert. Durante la
prima metà del XX secolo l’evoluzione degli studi era ancora
legata al lavoro di un limitato numero di eminenti ricercatori come
R.A. Bagnold, il cui “Physics of Blown sand and desert dunes”
del 1941 é ancora il lavoro di riferimento in questo ambito.
Per quanto riguarda gli studi sui corsi d’acqua i contributi di
Hjulström e A. Sundborg, rispettivamente negli anni 1930 e 1950,
furono i predecessori dei saggi dei ricercatori dell’United States
Geological Survey, particolarmente di L.B. Leopold, pubblicati nel 1950.
Contemporaneamente emerse la tendenza verso l’utilizzo dell’analisi
statistica dei dati quantitativi, soprattutto grazie al lvoro di A.N.
Strahler.
A partire dal 1950 circa sono stati sviluppati studi dettagliati sui
processi, secondo quattro direzioni: prima di tutto essi sono strettamente
basati sulla fisica e su misure precise sia sul campo che in laboratorio;
in secondo luogo l’analisi é molto rigorosa e fa pieno
uso di tecniche statistiche; terzo, oggi un gran numero di ricercatori
e quindi viene raccolta una grande massa di dati, spesso elaborati con
l’ausilio di computers, confrontando i fenomeni in regioni diverse.
La figura dell’eccellente studioso e scienziato é ancora
essenziale ai fini dell’evoluzione della teoria e della ricerca
di nuove idee, ma i diversi filoni di ricerca sono oggi sostenuti da
un congruo numero di ricercatori. Un quarto filone ha contribuito ha
rendere possibili molte di queste dettagliate analisi, ovvero l’erogazione
di fondi per iniziative di ricerca nelle Università e per attrezzature
di campo e di laboratorio.
Fino a non molto tempo fa la geomorfologia, come molte altre branche
della scienza, era campo quasi esclusivamente europeo e nord-americano,
i cui ricercatori monopolizzavano l’attenzione a livello mondiale.
La necessità di stimare le risorse di nuove regioni, unitamente
all’incremento dell’istruzione universitaria nel mondo,
ha favorito la formazione di gruppi di studio in molti paesi. Inoltre
i paesi in via di sviluppo hanno assunto molti ricercatori e docenti
provenienti dall’Europa e dagli U.S.A. a partire dal 1945, sebbene
l’attuale generazione di giovani studiosi sia di origine locale.
In Australia e Papuasia Nuova Guinea, la Land Resources and Regional
Survey of the Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation
(CSIRO) ha fornito non solo informazioni su forme, suoli, risorse idriche
e vegetazione, ma ha procurato anche un ampio campo di esperienze per
persone che poi hanno avviato programmi di ricerca nelle università
locali. La ricerca, in particolare nel campo degli studi sul Quaternario,
sta prosperando in molte zone del Sud America e dell’Africa dove
ricercatori locali spesso lavorano con ricercatori che si occupano del
paesaggio. In Giappone la geomorfologia sta prosperando, con alcune
grandi istituzioni che svolgono un lavoro eccezionale nello studio dei
processi, nella neotettonica e nel vulcanismo: sfortunatamente la barriera
linguistica impedisce la completa valutazione delle conquiste giapponesi.
Analogamente gran parte del lavoro svolto dai russi é scarsamente
noto, obbligando gli oratori inglesi a traduzioni attraverso il francese
ed il tedesco.
Una nuova tendenza a partire dal 1960 riguarda il riconoscimento che
la geomorfologia possa fornire un importante contributo alla geotecnica
(Geologia Applicata all’Ingegneria) ed alla conservazione dell’ambiente.
La geomorfologia applicata offre non soltanto lavoro per geomorfologi
ma anche un apprezzabile terreno di prova per la ricerca geomorfologica.
I principali tentativi di spiegazione delle caratteristiche fondamentali
della superficie terrestre sono stati focalizzati su modelli e a scala
globale. La tettonica a zolle è certamente la più importante,
convincente ed efficace teoria riguardo all’origine delle principali
tipologie di paesaggio e di configurazioni strutturali. La ricerca di
una teoria equivalente che permetta di mettere in relazione i paesaggi
con i vari processi indotti dal clima hanno avuto, fino ad ora, minor
successo. Il tema delle relazioni tra paesaggio e processi verrà
esaminato durante il corso. I principali criteri di comprensione dei
processi “esogeni” e dell’evoluzione del paesaggio,
insieme agli studi più recenti circa l’influenza dell’uomo
sul paesaggio, verranno qui di seguito accennati brevemente:
- . la geomorfologia climatica si interessa di correlare le forme
del paesaggio con le condizioni climatiche responsabili dei processi
esogeni attuali e dominanti, ed ha costituito l’interesse principale
di ricercatori tedeschi e francesi;
- la geomorfologia climatogenica é un ramo della geomorfolgia
sviluppato soprattutto da scienziati tedeschi, con il tentativo di
comprendere l’evoluzione del paesaggio in termini di processi
che lo hanno modellato nel tempo geologico recente, ponendo l’attenzione
sull’interpretazione delle condizioni ambientali del passato
dalle forme relitte.
- Negli ultimi 20 anni circa, l’interesse sulla natura dei
processi esogeni é stato accompagnato da una particolare attenzione
su parti dell’attuale paesaggio in evoluzione in termini di
bilancio, o equilibrio tra forme e processi.
- Lo studio dei sistemi geomorfologici, in cui vengono esaminate le
relazioni tra le componenti del paesaggio e i processi che le modificano,
ha permesso di identificare l’uomo stesso come parte integrante
del sistema e come principale agente geomorfologico
Nella letteratura geomorfologica si possono trovare due ampie ed opposte
visioni sull’influenza del clima su paesaggio. Gli oppositori
dell’approccio basato sulla climatologia negano che differenti
sequenze di processi determinino paesaggi identificabili come diversi:
L.C. King (1957), per esempio, asserì che “tutte le forme
di pendio ricorrono in ogni ambiente geografico e climatico” ed
A.N. Strahler (1952) scrisse:
“I processi geomorfici che osserviamo non sono altro, dopo tutto,
che le varie forme derivanti da deformazioni di taglio, o di materiali
che possono essere considerati sostanze fluide, plastiche od elastiche,
in risposta a sollecitazioni che sono per lo più di tipo gravitazionali
ma che possono essere anche molecolari... il tipo deformazione ... determina
il processo e la forma.”
In contrasto con l’approccio di King e Strahler, spesso associato
a ricercatori di area inglese in particolare geologi ed ingegneri, vi
é quello che mette in rilievo l’effetto dei fattori climatici
su vegetazione e suolo e, attraverso i loro effetti, di ritmi e modalità
differenti nello sviluppo delle forme in distinte zone climatiche. Questo
secondo approccio é più comunemente associato a geografi
di lingua francese e tedesca: tale principio viene chiaramente espresso
dall’idea di J. Büdel che “i processi esogeni,
attraverso le variazioni climatiche, creino l’immagine morfologica
della terra, mentre le strutture geologiche e tettoniche semplicemente
influenzino e modifichino le forme localmente.”
In uno schema di classificazione di paesaggi climatici devono essere
riconosciuti almeno sette problematiche:
1. il limitato intervallo temporale delle statistiche climatiche relative
allo studio dei processi;
2. la variazione del livello al quale i processi risultano confinati
ad una determinata zona climatica;
3. la scala alla quale i processi determinano forme caratteristiche;
4. l’influenza degli effetti tettonici, strutturali e litologici
sulle forme;
5. la scelta dei criteri per definire le associazioni di forme regolate
dal clima;
6. l’influenza dell’uomo;
7. le forme ereditate dai processi del passato.
Un approccio semplificato per definire la zonizzazione dei processi
geomorfici é illustrata in fig. 1.6. L.C. Peltier, utilizzando
esclusivamente i dati delle temperature medie e le medie delle precipitazioni
annuali, tentò di classificare le condizioni in cui processi
particolari sono più efficaci di altri; combinando tali condizioni
identificò i processi dominanti con regioni, in parte sulla base
del clima (arido, periglaciale, ecc.) ed in parte sulla vegetazione
dominante caratteristica di una zona climatica (selva, savana, ecc.).
Il risultato è stato di identificare una regione morfogenetica,
ossia una regione nella quale un caratteristico insieme di processi
di erosione, trasporto e deposito é responsabile dello sviluppo
delle forme del paesaggio.
I principali difetti di questo approccio sono:
- non viene riconosciuta l’importanza dell’intensità
e della ciclicità dei processi geomorfici nello sviluppo delle
forme del paesaggio; il mancato inserimento delle variazioni stagionali
del clima, e di eventi estremi come le tempeste, fa assumere come
dominante la condizione media del clima;
non permette di riconoscere il ruolo svolto dal suolo e dalla vegetazione
in relazione al clima, quali componenti interposti tra gli elementi
climatici e lo sviluppo delle forme.
Solo in regioni desertiche e glaciali il clima risulta agente diretto,
a causa della mancanza di vegetazione. Al di fuori dei deserti biologici
l’impatto delle piogge, del tasso di infiltrazione, delle variazioni
di temperatura, della velocità di scorrimento superficiale e
dell’accumulo di acqua, vengono modificate dalla copertura vegetale;
questa, inoltre, influenza direttamente il suolo tramite il continuo
rifornimento di materia organica da esso operato, l’effetto sull’alterazione
del suolo, sulla permeabilità, sull’aggregazione e sulla
resistenza all’erosione.
Alla base di un semplice approccio impostato su medie climatiche, vi
è l’ipotesi che i processi agiscano allo stesso modo in
climi diversi, sebbene sia sufficiente osservare gli effetti della maggiore
densità dell’aria dei climi freddi sulla capacità
di trasporto dell’aria stessa, o l’influenza dello sciogliersi
delle nevi e del ghiaccio sul bilancio dei deflussi superficiali e dei
processi fluviali nelle zone periglaciali, per comprenderne i limiti.
|
Fig. 1.6
Diagrammi di Peltier: tentativo di correlazione tra processi dominanti
e medie annuali di piovosità e temperatura ai fini della
definizione delle regioni morfogenetiche. Il diagramma dei processi
dominanti non include quelli di tipo glaciale.
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PROCESSI E ZONE CLIMATICHE |
Ogni processo o fenomeno la cui estensione ed espressione globale sia
strettamente riferita ad una specifica regione climatica può
essere definito “zonale”. Così le
foreste tropicali, le scogliere coralline e le distese di ghiacciai
polari sono manifestazioni decisamente zonali e i loro ambienti costituiscono
“zone morfoclimatiche”.
Molti processi, estesi a livello globale o che si verificano in più
zone, vengono definiti “azonali”. Quindi, ad esempio, l’azione
delle onde sulle spiagge e tutti i processi endogeni sono di tipo azonale.
Alcuni fenomeni possono essere caratteristici principalmente di una
particolare zona morfoclimatica, ma possono verificarsi altrove in modo
più limitato; in questo caso vengono definiti “extrazonali”.
Così i ghiacciai ed alcuni fenomeni di strutturazione dei suoli
possono verificarsi sulle montagne tropicali. Quindi uno stesso fenomeno
può essere zonale in un’area ed extrazonale in un’altra,
ma mai zonale in una ed azonale in un’altra.
Quei fenomeni che si verificano in diverse zone morfoclimatiche senza
verificarsi a scala globale sono definiti “polizonali”;
un esempio di questo tipo è quello dell’azione di acqua
e vento. Inoltre, dato che i fenomeni misti sono piuttosto comuni, il
concetto di zonalità non é così semplice come potrebbe
apparire a prima vista. Quindi un vulcano attivo da breve tempo ha una
forma che dipende interamente dai processi endogeni azonali mentre,
una volta cessata l’attività, la sua forma può dipendere
da processi glaciali zonali o processi fluviali polizonali. L’azione
del vento é azonale, ma é molto efficace in assenza di
vegetazione, e fenomeni zonali controllano la tipologia di materiale
trasportato (neve, sabbia, sale o fango), mentre la temperatura ne controlla
la viscosità.
Processi fluviali polizonali dominano molti delle forme del paesaggio
dell’Etiopia nella parte alta del Nilo, mentre quando il fiume
attraversa il deserto egiziano si trova certamente in condizione extrazonale.
Alcuni forme possono essere zonali in una determinata zona morfoclimatica
ed extrazonali altrove: i calanchi possono essere zonali in un clima
semiarido, ma extrazonali in un clima umido dove una frana ha esposto
una roccia di resistenza limitata all’erosione di un corso d’acqua.
Non esiste singolo processo di erosione o deposizione che generi tutti
le forme di una zona morfoclimatica, ma piuttosto un complesso di agenti
il cui livello di efficienza é controllato o modificato dalla
struttura geologica e dalla litologia.
Si può costruire una scala gerarchica in cui il clima di una
vasta regione, ad esempio un deserto caldo, imprime la sua impronta
su ogni forma, sebbene in quella regione siano dominanti diversi processi
o controlli. Così il vento può formare una duna, inondazioni
periodiche una spiaggia e le strutture un altopiano sovrastante.
Quindi le regioni climatiche sono più uniformi del paesaggio
che ricoprono; inoltre l’influenza strutturale generalmente aumenta
via via che la forma diminuisce di estensione.
Sulle grandi pianure di erosione (superfici di planazione) asiatiche
e nei continenti dell’emisfero Boreale é spesso difficile
distinguere l’influenza strutturale, litologica o tettonica, tranne
che negli occasionali rilievi residuali (inselbergs) costituiti da rocce
più resistenti all’erosione o nelle forme gradinate di
origine policiclica. Nelle zone montane l’influenza strutturale
può diventare dominante a causa delle intense variazioni del
clima e dei processi di erosione e deposizione con la quota; tali cambiamenti
risultano talmente rapidi da modificare caratteristiche particolari
del paesaggio piuttosto che influenzare la sua forma complessiva.
In fig. 1.6 é mostrato un esempio di tentativo di distinzione
tra zone morfogenetiche su base climatico-vegetazionale. Una tale zonizzazione
trascura non solo le stagioni climatiche ma anche le conseguenze delle
combinazioni di processi che risultano dal meccanismo di formazione
delle forme del paesaggio.
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Fig. 1.7
Province morfoclimatiche secondo Tricart e Cailleux. Per i riferimenti
numerici si veda il testo.
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Quindi la suddivisione morfoclimatica della Terra deve essere basata
su una integrazione tra processi, vegetazione, suolo e fenomeni legati
alle forme. In fig. 1.7 é rappresentata una mappa delle zone
individuate dai geomorfologi francesi J. Tricart ed A. Cailleux. Essi
individuano cinque raggruppamenti di zone e quattordici province morfoclimatiche.
Minore attenzione è stata posta alla definizione precisa dei
limiti rispetto ai lineamenti caratteristici di ciascuna provincia.
La “zona fredda” é suddivisa in quattro
provincie:
1. provincia glaciale
2. provincia periglaciale con permafrost
3. provincia periglaciale senza permafrost
4. foreste periglaciale sul permafrost Quaternario.
La “zona boscata di media latitudine”, composta
da tre province:
5. provincia marittima con inverni miti.
6. provincia continentale con inverni rigidi
7. provincia mediterranea con estati secche.
La “zona arida ed sub-arida delle basse e medie latitudini”,
suddivisa in quattro province:
8. steppa e semideserto con inverni miti
9. steppa con inverni rigidi
10. deserti con inverni miti
11. deserti con inverni rigidi
La “zona intertropicale”, composta da due province:
12. la savana
13. la foresta
“Regioni montuose”
14.sono trattate a parte in quanto la zonizzazione in funzione dell’altitudine
risulta di primaria importanza.
L’impatto dell’uomo sul paesaggio é stato così
grande e va aumentando così rapidamente, che deve essere considerato
come l’agente geomorfico primario in molte regioni morfologiche.
L’impatto antropico verrà discusso dettagliatamente nell’ambito
del corso, ma é necessario notare subito che tale impatto non
é distribuito uniformemente nelle provincie morfoclimatiche;
si possono individuare cinque ampie aree di sistemi morfogenetici influenzati
dall’uomo:
- Nelle aree agricolturali di U.S.A., Canada, Sud Africa, Australia,
Argentina, Brasile, e Nuova Zelanda, colonizzate nel XIX secolo dagli
europei, l’uso di attrezzi meccanici determinò una rapida
ed efficace conversione della copertura vegetale naturale ad una coltivazione
e pascolo destinati all’esportazione. Questo processo fu spesso
accompagnato dall’aumento dell’erosione del suolo e dalla
distruzione del manto di vegetazione mista che procedeva proporzionalmente
all’estensione delle monocolture e dei terreni adibiti al pascolo.
L’applicazione dei metodi di conservazione del suolo ha ora
ridotto l’erosione a velocità che spesso non sono più
intense di quelle naturali ed, in alcuni casi, persino inferiori.
La foresta Amazzonica viene ora sfruttata in condizioni pressoché
simili e con risultati ugualmente disastrosi di quelle della colonizzazione
del XIX secolo anzidette. In Russia un simile tasso di erosione é
il risultato dei tentativi di estensione della produzione di grano
alle steppe semiaride.
- Le zone sovrappopolate che utilizzano metodi agricoli tradizionali,
come l’Appennino italiano, il Messico, l’India, l’Algeria
e molte piccole aree di Grecia, Turchia, e Spagna sono soggette ad
intensa erosione a causa della povertà delle popolazioni. Infatti
la necessità di utilizzare tutte la terra per la produzione
di cibo, la mancanza di capitali per la costruzione di opere di conservazione
del suolo, o semplicemente la mancanza di controllo sul carico animale
nei pascoli, ha aumentato la velocità di erosione, con gravi
conseguenze anche economiche.
- In molte zone del mondo poco sviluppate la legna da ardere é
il solo combustibile per riscaldamento e per cucinare. In molte parti
dell’India e nelle foreste dell’Africa la deforestazione
é così diventata un fenomeno generalizzato. Nelle zone
a più bassa densità di popolazione, la conversione all’agricoltura
convisse per un po’ con foreste e savana; ma il tempo lasciato
alle foreste per rigenerarsi dopo il taglio diminuì man mano
che la popolazione andava aumentando, cosicché il deterioramento
del suolo é anche lì un fenomeno diffuso. In queste
zone molti governi cercano di incoraggiare le popolazioni a stabilirsi
permanentemente ed a migliorare le tecniche agrarie, ma questo orientamento
è possibile solo con l’aiuto di capitali esteri. Nel
Sahel, lungo il margine meridionale del Sahara e nei margini semiaridi
di molti deserti il pascolo intensivo, il calpestio degli animali,
gli incendi della macchia e le coltivazioni intensive hanno causato
la formazione di macchie locali di vero deserto, specialmente attorno
alle sorgenti d’acqua. Probabilmente l’avanzamento della
desertificazione non è generalizzato, ma l’aumentata
pressione della popolazione umana ha causato seri danni ecologici
ed un rapido cambiamento dei processi morfogenetici. Nel 1977 circa
630 milioni di persone, il 14% della popolazione mondiale, viveva
in zone aride o semiaride ed erano esposte ad un aumento della povertà
ed alla diminuzione delle risorse.
- Le terre monsoniche dell’Asia sono soggette ad intensi processi
naturali di erosione durante la stagione piovosa; inoltre la povertà,
il crollo dell’autorità politica, e la perdita delle
tradizionali tecniche di conservazione del suolo hanno fatto seguito
a sovrappopolazione o conflitti, incrementando la deforestazione e
l’erosione.
- Nei terreni agricoli europei di antica tradizione la diffusione
della monocoltura, l’ampliamento dei campi, l’incremento
nell’utilizzo delle macchine agricole ed i cambiamenti dei metodi
di coltivazione hanno periodicamente causato un incremento dell’erosione
locale. Per contrasto l’uso intenso del suolo in zone come l’Olanda
si accompagna, talvolta, ad una diminuzione del tasso di erosione.
Forse l’effetto più intenso della pressione antropica
sui ritmi e sulle forme dei processi morfogenetici é avvenuto
con la diffusione di grandi strutture ingegneristiche e dell’edificato,
specialmente nel XIX e XX secolo
In quasi tutte le provincie climatiche si ritrovano forme relitte che
testimoniano processi del passato. In alcune zone come valli glaciali
o aree pianeggianti, i paesaggi residuali dominano su quelli in via
di evoluzione; in alcune aree, come ad esempio le foreste tropicali
delle basse latitudini, i paesaggi residuali possono risultare meno
evidenti. Comunque, nell’ambito dell’interpretazione delle
forme del paesaggio attuale, si deve tenere conto della presenza delle
forme residuali; l’approccio proposto dalla geomorfologia climatica
individua nello studio delle eredità del passato la base di partenza
ai fini della ricostruzione dei mutamenti che hanno prodotto il paesaggio
attuale.
Il maggior esponente della geomorfologia climatica come metodo sistematico
di studio del paesaggio é il tedesco J. Büdel. Egli basa
il suo lavoro ritenendo i processi endogeni come i responsabili della
disposizione di zone di sollevamento e subsidenza, il ché determina
le condizioni di alterazione ed erosione selettiva delle rocce; Büdel
sostiene, tuttavia, che l’influenza della struttura sull’orografia
sia solo di tipo passivo e che la formazione attiva dei rilievi sia
determinata dai processi esogeni. Egli fa notare come le Alpi, se fossero
il prodotto esclusivo dell’innalzamento endogeno, apparirebbero
come un massiccio a cupola di circa 10 Km di altezza, sebbene i processi
esogeni abbiano eroso più della metà di questa altezza
dall’inizio del Terziario, creando così il paesaggio che
si osserva oggi.
|
Fig. 1.8
Le zone morfoclimatiche attuali secondo Büdel (1977).
|
- Una zona glaciale nella quale i fenomeni di scorrimento
del ghiaccio hanno formato vasti paesaggi d’erosione e di deposizione,
eliminando la maggior parte delle tracce di paesaggi più antichi.
Tuttavia, nelle aree in cui la copertura di ghiaccio era sottile,
alcuni resti di paesaggi preglaciali rimangono conservate.
- Zona subpolare di valle incisa, ovvero l’attuale
zona periglaciale della tundra sub-polare. Attualmente questa intensa
azione di incisione valliva avviene in zone come le isole Spitzbergen,
dove l’azione meccanica di sgretolamento frantuma la superficie
delle rocce, creando terreni strutturati e soprattutto il geliflusso,
lo scorrimento superficiale e canalizzato responsabili del trasporto
dei detriti nei fondovalle. Durante lo scioglimento primaverile delle
nevi le intense inondazioni trasportano grandi quantità di
detriti ed i fondovalle vengo scavati ed ampliati dalla corrasione.
Durante l’autunno il sottile strato di neve permette che l’impatto
del gelo (oltre i –30 °C) si propaghi all’interno
delle rocce causando intense contrazioni nello strato superiore di
permafrost che producono ampie fessurazioni. Queste spaccature sono
mantenute aperte dalla formazione di lenti di ghiaccio. Durante l’inverno
il freddo intenso fa progredire il processo ampliando ulteriormente
le fessurazioni. Nell’arco di un centinaio di anni lo strato
di roccia può essere suddiviso in piccole masse rocciose immerse
in una matrice di ghiaccio. Büdel definisce ice-rind questo strato
superficiale superiore. La parte superiore dell’ice-rind può
scongelarsi durante l’estate, quindi il letto dei corsi d’acqua
risulta composto da frammenti di roccia che vengono trasportati dalle
acque stesse. Nelle Spitzbergen, durante l’Olocene, l’abbassamento
dei fondovalle ha superato i 10-30 m. Büdel ritiene che intensi
processi di questo tipo siano avvenuti nell’Europa centrale
durante le ere glaciali e che il tasso d’incisione sia stato
pari a circa 1-3 mm/y. Lo stesso tipo di processo giustifica l’ampliamento
delle valli in aree non occupate dai ghiacci durante i periodi glaciali,
in antitesi all’erosione fluviale relativamente debole dei periodi
interglaciali olocenici in Europa*.
- Zona extratropicale di “lenta” formazione delle
valli: comprende la maggior parte delle regioni di media
latitudine, ed é caratterizzata oggi da processi moderatamente
attivi, ma spesso anche da strutture residuali connesse a formazioni
vallive generate in clima freddo (zona 2).
- Zona sub-tropicale di formazione di valli e pediments:
si trova tra le zone 3 e 5. E’ un’area caratterizzata
da clima fortemente stagionale, con inverni molto intensi nell‘Asia
continentale e molte forme residuali di tipo tropicale nei continenti
dell’emisfero australe. Il clima stagionale facilita il dilavamento
laminare cosicché i pediments, ed i più ripidi glacis
di erosione su rocce meno competenti, sono le forme caratteristiche
(fot. 1.1). Questa regioné divisa in quattro unità nella
classificazione del 1977.
- La zona tropicale di formazione delle superfici
pianeggianti é considerata la più ampia e quella che
in passato ha dominato vaste aree ora comprese tra la zone da 1 a
4. L’alterazione operata dal clima tropicale umido ed in particolare
quella prodotta dall’alternanza tra stagione secca ed umida,
presenta caratteristiche di grande importanza per lo sviluppo delle
forme. L’alterazione é quasi esclusivamente di tipo chimico
e si sviluppa in tempi relativamente rapidi. Inoltre risulta più
efficace su litologie quali il granito, in cui sia la mica che i feldspati
vengono trasformati in minerali argillosi, penetrando molto profondamente
lungo spaccature aperte e ravvicinate e dove è abbondante il
suolo inumidito. Quindi l’alterazione risulta più intensa
alla base dei versanti dove maggiore è l’apporto d’acqua,
e meno sui pendii ripidi, sui plateaux aridi o su rocce come le quarziti
ove non avviene la trasformate in minerali argillosi. Nelle pianure
il limite di alterazione ( cioè la zona di contatto tra il
regolite e la roccia sottostante) é irregolare a causa della
non uniforme competenza della roccia e delle variazioni del tasso
di umidità del suolo. Il limite dell’alterazione è
abbastanza profondo (4-10 m) poiché la velocità di alterazione
nelle aree con bassa energia del rilievo, supera la capacità
dei fiumi di trasportare i sedimenti. Il terreno assume la caratteristica
colorazione rossastra a causa della presenza di ferro e dell’intensa
azione chimica di formazione dei minerali argillosi cosicché
la caolinite, insieme agli ossidi di ferro ed alluminio, risultano
predominanti nel regolite. L’esposizione dello strato di suolo
più profondo in seguito all’asportazione di quello soprastante,
conduce frequentemente all’indurimento degli ossidi di ferro
ed alla formazione di duricrusts. I corsi d’acqua trasportano
quantità elevate di soluti, di argille a grana fine e di sabbie,
ma poco materiale a grana grossa a causa della scarsa alterazione
meccanica. I fiumi quindi presentano una bassa capacità di
incisione sul “bedrock” compatto, il quale si trova esposto
proprio a causa dell’azione dei fiumi che rimuovono il materiale,
poco resistente, che costituisce il regolite. Di conseguenza i lunghi
profili di molti fiumi tropicali sono interrotti da cataratte, cascate
e rapide; inoltre tra i bassopiani locali, i fiumi migrano lateralmente
attraverso piane profondamente erose, espandendosi in ampi bacini.
In tal modo lo spianamento laterale, le superfici di erosione a disposizione
della pioggia battente (rain splash), l’erosione laminare (sheet
wash) ed i processi di soluzione riducono lo spessore del suolo nei
bacini e nelle pianure; contestualmente il fronte di alterazione procede
all’interno del bedrock. La combinazione tra rimozione laterale
dei detriti superficiali ed approfondimento nel regolite viene chiamata
da Büdel doppia planazione punti in cui il terreno,
abbassandosi, raggiunge il fronte dell’erosione il bedrock può
trovarsi esposto formando un tor o un inselberg (fig. 1.9). In un
clima tropicale caratterizzato da stagioni secche, i processi di slope
wash risultano piuttosto efficaci e i ferricrete (lateriti) si trovano
esposti, assumendo la forma di calotte rocciose al di sopra delle
scarpate. Le superfici di planazione tropicale con profondi profili
di alterazione incisi nel bedrock, sono chiamati etchplains (piane
di incisione). Queste piane possono venire frazionate a causa di variazioni
climatiche, scomparsa della copertura vegetale o abbassamento del
livello di base locale; quindi il regolite viene rimosso e si sviluppa
una superficie di bedrock irregolare, o con una sottile copertura
di suolo – ovvero un etchplain inciso (fig. 1.11). Nello schema
del 1977 viene distinta anche una zona tropicale interna.
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Fot. 1.1
Esempio di pediments al piede dei versanti nell’area delle
Cape Fold Mountains.
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Büdel ed altri ricercatori hanno identificato resti di etchplain
in molte aree che non sono attualmente caratterizzate da clima di tipo
tropicale. Talvolta questi etchplain presentano resti di suolo caolinizzato,
suoli ad argilla rossa o resti di lateriti. Alcune di queste superfici
relitte di etchplains hanno un’età di formazione individuabile
come risalente al tardo Mesozoico o Terziario. Il progressivo cambiamento
dei processi morfogenetici dominanti é indicato in fig. 1.11.
Mediante questo schema Büdel individua il graduale raffreddamento
dei continenti durante il periodo Terziario e la frequenti fluttuazioni
climatiche durante il Pleistocene. Il riconoscimento delle numerose
fluttuazioni del clima nel Quaternario convinsero C.A. Cotton a mettere
in evidenza l’importanza dell’alternarsi degli ambienti
morfogenetici. Lo scopo principale della geomorfologia climatica é
illustrato in fig. 1.10 dove sono rappresentate due aree dell‘Europa
centrale nelle quali Büdel individua le seguenti forme:
1. i resti degli etchplains del Terziario.
2. Vasti piediments formatisi durante un probabile periodo secco del
tardo pliocene.
3. La profonda incisione delle valli avvenuta nel Pleistocene in clima
periglaciale.
4. I fondovalle olocenici.
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Fig. 1.9
Superficie di doppia planazione in ambiente tropicale bi-stagionale
(secco-umido). Si noti l’assenza di incisione fluviale;
le piane sono dominate dall’erosione laminare. Gli inselberg
più elevati sono più antichi dei più bassi
i quali risultano esposti solo dal momento in cui il dilavamento
rimuove il materiale che costituisce il regolite (Büdel).
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Questa modellizzazione sottintende che le modifiche delle superfici
di plateau si esplichi molto lentamente, che i paesaggi antichi (paleoforme)
possano perdurare, con piccole modifiche, per decine di milioni di anni
e che l’erosione attiva risulti confinata soprattutto ai lati
della valle ed in particolare ai fondovalle. L’importanza di questa
teoria risiede dunque nel fornire una base storica alle ipotesi geomorfologiche
circa il controllo del clima sui processi e sulle forme.
I due principi fondamentali che sono alla base dei tentativi di correlazione
tra forme del paesaggio e clima sono quello dell’attualismo e
quello dell’uniformismo.
- Lo studio dei fenomeni geologici attuali fornisce una chiave per
la comprensione di fenomeni simili nel passato (attualismo). Risulta
abbastanza evidente tuttavia, che la combinazione tra processi ed
i relativi effetti possono essere stati molto diversi nel passato
rispetto ad oggi. Si è dimostrato che all’inizio del
Terziario il climi era, in vaste aree, molto più caldo di quello
attuale; ciò potrebbe implicare che i processi chimici fossero
più rapidi, sebbene possano essere stati anche più efficaci.
In Africa ed in Australia, ad esempio, molte lateriti potrebbero essersi
formate in condizioni che non si verificano da molto tempo, così
come in alcun luogo oggi si sviluppano i silcretes (duricrust ricche
di silice). Sono pochi i dati certi circa la formazione delle silcretes,
quindi non si può affermare se l’origine sia di tipo
climatico o legata alla mancanza di particolari quanto necessarie
combinazioni tra i valori di pH e potenziale di ossidazione in presenza
di suolo abbondante e di acqua corrente. In condizioni di ambiente
umido i suoli e la copertura vegetale rappresentano una zona di interfaccia
tra processi climatici, rocce e regolite. Il manto erboso, e quindi
la relativa formazione del suolo, non si sviluppò prima dell’inizio
del Terziario; inoltre, durante il tardo Cenozoico, molte specie vegetali
e fitocenosi si sono estinte, hanno ridotto le loro aree di insediamento
o hanno modificato la loro struttura. L’effetto di tali cambiamenti
sui processi genetici delle forme non è noto. Una delle testimonianze
più importanti ai fini delle ricostruzioni paleoclimatiche
è rappresentata dal ritrovamento di paleosuoli. Le caratteristiche
del suolo rispecchiano il fragile equilibrio tra orografia, clima
e vegetazione. La presenza di una specifica tipologia di suolo in
un dato luogo, testimonia la minore efficacia dell’azione meccanica
dell’erosione rispetto ai processi di genesi del suolo stesso.
Il ritrovamento di orizzonti continui di suolo, oppure di livelli
troncati o sepolti con bordi netti, rappresenta un importante contributo
al fine di distinguere la velocità relativa e la distribuzione
dei fenomeni erosivi sul paesaggio; quindi tali ritrovamenti sono
indicatori di stabilità del paesaggio. Suoli intercalati a
sequenze sedimentarie, per esempio su antiche piane alluvionali, indicano
periodici eventi deposizionali. Gli stessi paleosuoli sono indicatori
di regime climatico mentre i suoli fortemente arrossati e quelli fortemente
caolinizzati, sono considerati testimonianze di condizioni climatiche
caldo-umide. Tuttavia è provato che, in tempi sufficientemente
lunghi, questa tipologia di suoli possano formarsi anche in climi
più freddi; quindi i paleosuoli possono essere considerati
solo come indicatori di lunghi periodi di stabilità piuttosto
che di particolari regimi climatici. Le attuali misure di velocità
dei processi vengono usate, alcune volta, per valutare l’età
di un paesaggio: essendo implicito il fatto che un paesaggio antico
non possa conservarsi in una zona di intensa erosione. L’utilizzo
di questo metodo può essere utile ma, al tempo stesso, ingannevole.
Appare evidente, da quanto esposto in precedenza, che le superfici
di planazione si siano sviluppate in tempi dell’ordine di decine
di milioni di anni e che le loro vestigia possono conservarsi per
100-200 My. Ciò vale in particolare in quelle aree in cui,
durante gran parte del Cenozoico, il regime climatico è stato
di tipo arido o semi-arido, o dove le condizioni strutturali sono
particolarmente favorevoli, come, ad esempio, sugli altopiani calcarei
della Gran Bretagna. Il problema principale che si pone nello stabilire
la validità dell’approccio climatico all’interpretazione
delle forme é la necessità di individuare insiemi caratteristici
di forme per le più importanti zone climatiche attuali e quindi,
per analogia, mettere in relazione i paesaggi residuali (paleoforme)
con un dato regime climatico. Molti critici ritengono che questo problema
non sia ancora stato risolto; alcuni di essi si spingono fino ad affermare
che questa interpretazione sia impossibile poiché il paesaggio
attuale contiene la testimonianza di tutti i regimi climatici del
passato, comprese tutte le variazioni. Come ulteriore obiezione bisogna
ricordare tutti i problemi inerenti al riconoscimento di convergenze
(o equifinality) secondo cui differenti combinazioni di processi possono
dar luogo ad una stessa tipologia di forme.
- Il concetto secondo cui la velocità dei processi geologici
sia essenzialmente costante é nota come principio dell’uniformismo.
Questo principio si basa sul convinzione che le leggi fondamentali
della fisica e della biologia non siano variate nel tempo, il che
é anche la base di tutto il pensiero scientifico; no si può
affermare altrettanto se si ritiene che ciò significhi che
la velocità dei cambiamenti in tempi geologi sia essenzialmente
uniforme. Durante il tardo Cenozoico il clima, le calotte glaciali,
il livello di base e la copertura vegetale sono cambiati ripetutamente
e spesso rapidamente: lo stesso non si può dire per la maggior
parte del primo Cenozoico. Cambiamenti drastici nel paesaggio possono
verificarsi nelle zone montane con forte acclività a causa
di frane in roccia di grandi dimensioni, il cui effetto può
essere visibile anche dopo 100.000 anni. Al contrario la valle vicina
può non aver subito altro che una occasionale piccola frana.
L’analisi di forme con età oltre il centinaio di migliaia
di anni raramente permette di riconoscere le aree soggette ad eventi
estremi, la frequenza con cui si verificano eventi di grande intensità,
le misure di variazione sulle forme prodotte così come il tempo
necessario affinché il loro effetto sia cancellato o modificato
da eventi meno intensi. Tali considerazioni sono tuttavia al centro
di molti studi recenti sull’equilibrio del paesaggio.
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Fig. 1.10
Genesi del rilievo nell’Europa centrale secondo Büdel
(1979): 1. echtplains del Terziario; 2a. superfici di origine
dubbia comprese tra il Pliocene e l’alto Pleistocene; 2b.
ampi terrazzi e pediments al di sopra delle valli principali,
datate dall’alto Quateernario; 3. Valli Pleistoceniche;
4. Pianure e terrazzi a bassa quota dell’Olocene. Questo
schema semplificato implica che più del 95 % dei rilievi
europei sia pre-Olocenici, il che pone alcuni problemi interpretativi
sul riconoscimento delle moderne zone morfoclimatiche..
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Fig. 1.11 Una superficie
di doppia planazione o etchplain può essere privata dalla
copertura del regolite, in particolare in seguito a variazioni climatiche,
evolvendo in un etchplain con scarso regolite. |
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Fig. 1.12 Zone morfoclimatiche
dell’emisfero boreale in una fascia meridionale dall’Equatore
al Polo Nord, attraverso l’Europa Centrale, dal Terziario
in poi. Le numerose fluttuazioni climatiche del Cenozoico non sono
rappresentate in scala (Büdel, 1948 e 1977). |
L’importanza di un evento erosivo dal punto di vista geomorfologico
dipende dalla quantità di energia che esso scarica sul paesaggio.
Maggiore é l’intensità di un evento e minore é
la probabilità che esso si verifichi nuovamente nell’immediato
futuro. I periodi di ritorno, o frequenze, vengono espressi in termini
di probabilità; così una frana con dimensioni tali da
avere un periodo di ritorno di 10 anni, ha una probabilità del
10% di ripetersi in un anno, mentre per una frana con un tempo di ritorno
di 100 anni la probabilità scende all’1%.
Frane di grandi dimensioni possono verificarsi, in media, soltanto una
volta su svariate migliaia di anni. Questo semplice approccio statistico
presenta il limite di non considerare le variazioni del clima sul calcolo
della probabilità e quindi, ad esempio, un aumento della piovosità
può aumentare la probabilità che si verifichino frane
di particolare dimensioni.
Il concetto di intensità e frequenza degli eventi responsabili
del cambiamento delle forme implica che eventi molto frequenti, o continui,
come il fenomeno del passaggio in soluzione o il soil creeping, siano
approssimativamente bilanciati cioè risultino in equilibrio con
lo sviluppo del suolo, con la copertura vegetale e con il tasso di erosione.
Questo “normale” tasso di cambiamento viene interrotto da
eventi estremamente rari, dopo i quali il paesaggio tende gradualmente
a reintegrarsi, sebbene più grande è l’intensità
dell’evento e più lungo é il tempo necessario per
ripristinare la situazione iniziale (tempo di rilassamento). Di conseguenza
i cambiamenti del paesaggio si verificano in periodi di stato stazionario
in cui dominano processi di tipo graduale, accompagnati da eventi catastrofici
e quindi dai relativi periodi di recupero, durante il quale le forme
si adattano a tale evento (es. frane in roccia e detriti vengono ricoperte
dalla vegetazione, con la formazione di suolo, Fig. 1.13).
L’evento catastrofico deve avere sufficiente energia per superare
quella che è la soglia di resistenza. Esaminato per un tempo
molto lungo il paesaggio sembra ancora essere in equilibrio con le forze
agenti su di esso, ma poiché non si tratta di un equilibrio calmo
o statico, é spesso chiamato equilibrio dinamico. Nei periodi
di variazione del clima, durante i quali si assiste anche a cambiamenti
della copertura vegetale, si verificano fasi in cui l’equilibrio
di lungo termine è rotto, aprendo la strada a rapido variazioni
delle forme. Testimonianze di questo tipo di evoluzione possono essere
riconosciute, ad esempio, dall’incremento delle gully e rill erosion,
o dall’aumento della produzione di sedimenti, il quale raggiunge
il valore massimo durante lo sconvolgimento della copertura vegetale,
per poi diminuire quando la vegetazione si ricostituisce (Fig. 1.14).
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Fig. 1.13
Equilibrio dinamico: comprende i tre stati di 1.evento di modellamento
della forma; 2. riequilibrio della forma in seguito all’evento;
3. periodo di stato stazionario durante il quale non si verificano
sostanziali modifiche della forma. La curva che rappresenta la
variazione delle forme del paesaggio nel tempo può crescere
molto rapidamente, gradualmente o lentamente in funzione dell’intensità
e frequenza del processo dominante (Selby, 1974).
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L’importanza del concetto di equilibrio e della sua rottura,
risiede nel far concentrare l’attenzione sulla variabilità
del tasso di variazione dei fenomeni e su quelli che sono i suoi effetti.
Inoltre guida l’attenzione su quelle porzioni di paesaggio che
sono particolarmente sensibili ai cambiamenti (generalmente zone elevate
e fortemente acclivi), formando un collegamento tra lo studio dei processi
a breve termine e l’approccio storico della cronologia dell’erosione
e della geomorfologia climatica.
Il concetto di equilibrio dinamico tra forza e resistenza negli eventi
che modellano le forme non é nuovo: in particolare é implicito
negli scritti di G. K. Gilbert (1877). Più recentemente Hack
(1960) ha suggerito che l’intero paesaggio possa svilupparsi senza
variazioni di forma se il tasso di incisione dei corsi d’acqua
e la velocità di erosione dei pendii risultano in condizioni
di quasi equilibrio. Hack ipotizzò che la topografia dei crinali
e delle gole di alcune zone degli Appalachi si stia evolvendo secondo
questo modello. Tuttavia questa interpretazione risulta applicabile
solo per un intervallo limitato di tempo geologico poiché, in
tempi più lunghi deve verificarsi l’adattamento del paesaggio
verso il livello di base.
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Fig. 1.14
Risposta della copertura vegetale e tasso di erosione in funzione
delle più intense variazioni delle precipitazioni. La variazione
climatica è considerata
|
Riconoscere le relazioni tra energia introdotta in un’unità
di paesaggio ed i suoi effetti sulle tante parti costitutive di quel
paesaggio, ha incoraggiato alcuni studiosi dei processi genetici delle
forme a studiare i sistemi nel loro complesso. Come esempio si consideri
l’immissione di energia in un bacino idrografico prodotta da un
temporale. Si genera una frana il cui detrito scivola nell’alveo
producendo uno sbarramento nel canale, il ché genera al tempo
stesso deposizione ed erosione di quei banchi di canale verso i quali
viene deviata la corrente: i sedimenti inoltre vengono trasportati fuori
dalla valle. In conseguenza del verificarsi della frana la capacità
di infiltrazione in corrispondenza della nicchia di distacco si riduce
fino a quando il suolo e la vegetazione non ricoprono nuovamente la
roccia; inoltre il banco di erosione del canale diminuisce gradualmente
via via che lo sbarramento viene asportato. Infine la maggior parte
delle tracce della frana vengono eliminate. Il bacino idrografico ha
risposto in modo complesso all’immissione di energia causata dal
temporale, trasmettendola sotto forma di energia cinetica dell’acqua
e ricostituendo poi l’equilibrio con modifiche permanenti di dimensioni
relativamente modeste. Il bacino idrografico si è comportato
come un insieme di componenti, o variabili, connesse in modo tale che
una variazione di una di esse implica la variazione delle altre. Ragionando
a grande scala l’intero sistema solare può essere considerato
un “sistema”, ovvero un insieme di elementi correlati gli
uni agli altri ed operanti contemporaneamente.
La maggior parte dei sistemi geomorfici sono di tipo aperto, ovvero,
come il bacino di cui sopra, permettono scambi sia di energia che di
materia con ciò che li circonda. In essi si riscontra la tendenza
ad adattare le relazioni tra gli elementi al fine di giungere ad una
condizione di stato stabile; tale comportamento si riflette nella struttura
degli elementi che li compongono (p. es. la struttura gerarchica del
reticolo idrografico – Fig.10.25).
Alcuni sistemi naturali, se osservati a scala adeguata, possono essere
considerati chiusi: la terra per esempio riceve una scarsa quantità
di materia (rispetto alla propria massa n.d.t.) e non ne trasmette allo
spazio circostante; analogamente il ciclo idrogeologico perde e riceve
piccole quantità di materia. Entrambi i casi si possono considerati
sistemi chiusi, se si trascura l’apporto di materia fornito dalle
meteoriti e la produzione di acque juvenili (di origine vulcanica n.d.t.).
L’interazione tra gli elementi di un sistema aperto provoca una
mutua riorganizzazione definita feedback. La presenza del feedback implica
che così come una variabile influenza un’altra, questa
a sua volta provochi una variazione della prima. Il feedback può
essere diretto se influisce solo sulle due variabili oppure indiretto
se si verifica attraverso la modifica di altre variabili. Può
inoltre essere positivo o negativo.
Nel feedback negativo la variazione nella seconda variabile causa una
modifica nella prima tale che essa tende a tornare allo stato tramite
autoregolazione e generando uno stato stabile di tipo dinamico. Nell’esempio
della frana visto sopra, il detrito può riempire il fondovalle
allontanando il flusso della corrente dal piede del pendio, permettendo
così la stabilizzazione del pendio stesso e la ricolonizzazione
della roccia da parte della copertura vegetale; in questo modo il pendio
ristabilisce una condizione di stabilità.
Nel feedback positivo la variazione nella seconda variabile induce la
prima a cambiare sempre più nella direzione della variazione
iniziale. La zona della nicchia di distacco della frana ha una velocità
di infiltrazione più lenta rispetto alla copertura di suolo iniziale.
Quindi la roccia diventa un sito di aumentato deflusso, originando ruscellamento
ed erosione tipo gully erosion; in alternativa la zona della nicchia
di distacco potrebbe risanarsi, ma la depressione diventerebbe sede
di una nuova espansione della rete di deflusso e su di essa riprendere
l’erosione.
In entrambi i casi il feedback positivo aumenterebbe l’effetto
erosivo indotto dalla frana. Inoltre, il progredire del processo evolutivo,
comporta che la depressione, risultando sempre più abbassata,
diventi sito di deposizione. L’autogenerazione del feedback positivo
porta in sé la causa della sua stessa cancellazione. L’erosione
glaciale é spesso associata al feedback positivo poiché,
scavando il fondo delle valli, produce l’ispessimento dello strato
di ghiaccio che a sua volta aumenta l’effetto compressivo del
flusso intensificando quindi l’azione erosiva. Un altro esempio
é fornito dalle modalità con cui gli inselbergs diffondono
l’acqua nelle pianure circostanti, incrementando gli effetti dell’alterazione
e l’erosione ai piedi dei pendii, aumentando così il rilievo
relativo degli inselbergs stessi.
I concetti di equilibrio e i sistema sono i più appropriati al
fine di studiare gli attuali processi di erosione e le forme che ne
derivano. Risultano invece di scarso interesse negli studi sull’evoluzione
di lungo periodo del paesaggio nel suo complesso, per i quali le forme
residuali di particolari condizioni paleoambientali, insieme alle paleoforme,
risultano essere indizi vitali. Questo approccio ovviamente non intende
negare l’importanza del verificarsi degli adattamenti isostatici
che si verificano ad esempio in Africa per l’asportazione di materiale
a causa dell’erosione, né che l’innalzamento negli
Appalachi possa verificarsi con la stessa velocità del processo
di spianamento, ma che le differenze nella scala del tempo fanno sì
che l’approccio secondo la teoria dei sistemi sia il più
appropriato quando si possono misurare le variazioni e riconoscere i
meccanismi di feedback. Quindi si tratta di un approccio che permette
di correlare lo studio dei processi agli effetti di questi sulle forme
ed al contesto in cui viene applicato il principio dell’attualismo.
L’UOMO COME AGENTE MORFOGENETICO |
L’impatto della popolazione umana sulla superficie terrestre é
circa proporzionale al numero di individui, alla loro distribuzione, all’organizzazione
sociale, al livello tecnologico ed all’utilizzo dell’energia
minerale. Nel mondo industrializzato ogni individuo utilizza, in media,
2.107 grammi (20 tonn.) di materiali minerali di nuova estrazione all’anno.
Per 1000 milioni di persone, cioè circa il 15% della popolazione
totale dell’anno 2000, il consumo annuo (2.1016 g) eguaglia, in
termini di massa, i più imponenti processi geologici della terra,
quali ad esempio la massa di crosta oceanica di nuova formazione, la quantità
di roccia erosa sui continenti ed i sollevamenti crostali per attività
tettonica.
Se a questa stima si aggiunge la quantità di suolo movimentato
ogni anno in agricoltura non vi é alcun dubbio che l’uomo
è diventato il più importante agente di modifica della superficie
terrestre. Le brevi osservazioni presentate in queste pagine non sono
sufficienti a giudicare esattamente l’uomo come agente morfogenetico.
Il rapporto tra uomo e superficie terrestre non é soltanto quello
connesso alla creazione di nuove forme: l’attività umana
modifica la velocità e l’intensità dei processi naturali;
l’uomo studia e riesce a superare i vincoli imposti dall‘ambiente
naturale; l’uomo è soggetto ai rischi naturali; valutando
le risorse ed amministrandole tenta di controllare l’ambiente.
L’uomo come artefice di nuovi paesaggi |
Solo il 15% circa della superficie terrestre perdura nella condizione
di stato naturale. In alcune aree, ad esempio i Paesi Bassi, l’intera
superficie del suolo é stata modificata o creata dall’attività
umana. Il detto: “Dio ha fatto il mare ma gli Olandesi hanno fatto
la terra” si avvicina al vero in gran parte dei Paesi Bassi.
Le aree più intensamente alterate sono quelle urbane dove calcestruzzo
e catrame, insieme ad ogni tipo di struttura, controllano l’erosione
ed i processi idrologici. Gli interventi legati all’agricoltura
- spesso mediante terrazzamenti, sistemi di irrigazione, e con cambiamenti
su scala sempre maggiore della copertura vegetale - realizzati per l’approvvigionamento
della popolazione urbana, hanno effetti sui paesaggi che si estendono
per migliaia di chilometri fuori dall’ambito urbano. Serbatoi,
cave, miniere, discariche, tagli stradali, ferroviari e canali, interventi
di protezione della costa e di assetto dei fiumi ed apparati idroelettrici
sono tutti esempi di forme del paesaggio di tipo nuovo e di agenti di
modifica dei processi.
L’influenza più drammatica sulla velocità dei processi
naturali é data dal mutamento della copertura vegetale e dall’espansione
dell’agricoltura. L’accelerazione dei fenomeni erosivi innescati
nel 1930 nei Dust Bowl States dell’America occidentale é
un esempio delle conseguenze alle quali si và incontro. Quei
fenomeni si stanno oggi ripetendo nella maggior parte dell’Africa,
in aree di Russia, Brasile ed India.
Problemi nella gestione dell’ambiente |
Il contributo dato dagli studiosi delle scienze della terra alla soluzione
dei problemi ambientali si distinguono in cinque categorie:
1. E’ indispensabile raccogliere dati sui seguenti argomenti:
forma della superficie terrestre; processi di erosione e deposito; rischi
potenziali quali frane, colate di fango, inondazioni, subsidenza (si
veda tab. 1.2), suoli salini che possono causare deterioramento dei
materiali edili e suoli o rocce incompetenti in aree destinate alla
costruzione di strade o edifici; suolo, acqua e risorse minerali.
2. Si devono comprendere i fattori che influenzano la sicurezza e la
durata dei materiali presenti nelle discariche e la loro influenza sul
suolo e sulle acque.
3. Si devono stimate per quantità e qualità le risorse
permanenti di acqua.
4. Si devono identificare e mappare le risorse minerali: ciò
risulta di particolare importanza per materiali di grande volume ma
di scarso valore come sabbia, ghiaia, argilla e calcare necessari per
produrre cemento e calcestruzzo e costruire strade; lo sviluppo urbano
infatti può renderli inaccessibili e gli approvvigionamenti alternativi
possono essere costosi da trasportare.
5. Il monitoraggio delle variazioni dell’ambiente fisico causate
dalle attività umane ha assunto importanza sempre crescente al
fine di poter applicare tempestivamente alle situazioni critiche i rimedi
possibili.
Gli studiosi nel campo della geomorfologia devono dunque giocare un
ruolo di fondamentale importanza nella valutazione e pianificazione
di un uso saggio dell’ambiente naturale ed umano.
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