INTRODUZIONE ALLA GEOMORFOLOGIA |
|
La geomorfologia, dal Greco geo (Terra), morphé (forma), logos
(studio), si occupa dello studio delle forme del rilievo terrestre.
Come tutte le Scienze Naturali la Geomorfologia descrive oggetti, in
particolare le forme del rilievo, dal punto di vista della loro origine
ed evoluzione.
L’analisi viene affrontata dal punto di vista descrittivo (studi
morfografici e morfometrici), da quello strettamente genetico (geomorfologia
dinamica e teorica) o con un approccio di tipo applicativo.
Gli strumenti utilizzati vanno dall’analisi di foto aeree, alla
redazione di cartografia tematica al rilevamento sul campo fino all’uso
delle tecniche matematiche e statistiche più sofisticate della
geomorfologia teorica.
 |
Foto 13.1 Arco di roccia
generato dall’azione erosiva del mare; s’Archittu,
Sardegna. (foto G. Paliaga). |
 |
Foto 13.2 Forme di erosione eolica sul
conglomerato; p.ta Chiappe, Portofino. (foto G. Paliaga). |
"Land forms"
Una traduzione letterale di questo termine anglosassone è quella
di "unità morfologica territoriale" intendendo questa
come "unità geomorfologica" nel senso più ampio.
In funzione del settore di studio si possono proporre diverse interpretazioni.
Da un punto di vista strettamente geologico, negli U.S.A., al termine
“land form” viene assegnato il significato di descrizione
della "espressione" superficiale con interferenze dovute alla
struttura geologica o alla quota. Questa è anche l'ottica di
alcuni pianificatori ed ingegneri ambientali; gli elementi più
caratteristici della Terra possono presentarsi in distinte unità
morfologiche territoriali, distinguibili per forme particolari, caratteristiche
del suolo, topografia, litologia ed eventuali falde idriche comuni.
Per altri pianificatori questo concetto rappresenta "una caratteristica
del terreno, generalmente di terzo ordine, creata da un processo naturale,
di forma tale da poter essere descritta e riconosciuta in termini di
tipicità, che, una volta riconosciuta, fornisce informazioni
supplementari sulla sua struttura e anche sulla sua composizione, tessitura
ed uniformità”. Le forme di primo ordine sono i continenti
e gli oceani; quelle di secondo sono le cordigliere e quelle di terzo
sono le valli, i laghi, le coste, ecc.
Gli architetti paesaggisti danno un significato strettamente visuale
classificando semplicemente valli, montagne, depressioni, pianure, ecc.
Una definizione più sintetica considera le unità come
terreni formati da un processo naturale, che ha una composizione definita
ed un insieme di caratteristiche fisiche e visuali.
Secondo Savigear (1965) il "land form" é una porzione
della Terra con caratteristiche morfologiche distinte che possono essere
attribuite alla predominanza di un processo particolare o ad una struttura
particolare nel corso del suo sviluppo, e nella quale la configurazione
deve potersi chiaramente individuare.
 |
Foto 13.3 Roccia dell’orso
(Palau, Sardegna): forma erosiva eolica su granito (tafone). (foto
G. Paliaga) |
La forma del rilievo riveste una particolare importanza quando si deve
realizzare uno studio del territorio. Indipendentemente dall'obiettivo
da perseguire, bisogna sempre tenere presente i processi di modellamento
della superficie terrestre. Il motivo è duplice: per la geomorfologia
stessa ma anche per l'influenza che questa può avere nei confronti
del rilevamento degli altri elementi o processi presenti nell'area di
studio
 |
Foto 13.4 Roccia dell’Elefante
(Sardegna), forma prodotta dall’erosione su trachite
(roccia vulcanica effusiva a chimismo acido). (foto G. Paliaga) |
 |
Foto 13.5 Spiaggia con estuario divagante.
Sardegna, costa occidentale. (foto G. Paliaga).
|
Inutile sottolineare che la configurazione geomorfologica
ha determinato la gran parte degli insediamenti umani. Ad esempio una
catena montuosa può rappresentare una barriera in alcuni casi
invalicabile per i popoli dagli opposti versanti, mentre la presenza
di un fiume presuppone la possibilità di utilizzo dell'acqua
per l'agricoltura o per uso idropotabile o, infine, come via di comunicazione;
una linea di costa con porti naturali determinerà una vocazione
verso la pesca delle comunità che lì si stabiliranno ....
La Geomorfologia è un elemento complesso, o macroelemento, in
stretta relazione con altri elementi o processi, i quali a volte vengono
da essa fortemente condizionati (erosione, inondazioni, ecc.). Per questo
motivo non sempre è conveniente realizzare un rilevamento morfologico
in forma sintetica, ma potrà essere utile un rilevamento separato
delle varie componenti dell’ambiente al fine di ottenere informazioni
fruibili in modo completo e ricavare relazioni tra esse.
Questa complessità della Geomorfologia si ripercuote sull’ampia
influenza da essa esercitata. Così, per esempio, la climatologia
generale di vaste aree può variare in funzione della configurazione
del territorio; un esempio di questo tipo è fornito dalla presenza
di una catena montuosa nella dinamica delle masse d'aria e della piovosità.
Inoltre anche il legame tra Geomorfologia e Pedologia è notevole,
tenendo sempre presente l'elemento tempo. Infatti il processo pedogenetico
dipende sia da fattori litologici, che climatici e geomorfologici.
La Geomorfologia facilita una corretta interpretazione della tessitura
e della composizione dei suoli che si sono formati dall'erosione, dal
trasporto dei materiali e dalle condizioni di deposito. Per esempio
in un terreno acclive i cambi di pendenza sono correlati ai processi
di erosione e di deposito; quindi la forma a sua volta condiziona il
tipo di suolo. In riferimento alla tabella 1 si può osservare
la relazione tra grado di pendenza, processo erosione-deposito, tessitura
del suolo e tipo morfologico. Per completezza il quadro dovrebbe anche
riportare le condizioni di vegetazione avendo questa grande influenza
sulle caratteristiche del suolo stesso.
Tab. 1 Relazioni tra pendenza, processi di erosione
e deposito, tessitura del suolo e tipologia geomorfologica
Le relazione tra Geomorfologia ed idrologia sono evidenti. Il modellamento
terrestre è in gran parte conseguenza di fenomeni idrologici.
Per quanto riguarda la vegetazione, la quota e l'esposizione risultano
essere fattori limitanti; infatti la pendenza condiziona la velocità
di drenaggio e quindi la disponibilità di acqua per le piante
ecc.
La Geomorfologia è uno strumento prezioso per il geologo.
Ad esempio, in assenza di densa copertura vegetale è relativamente
facile ottenere interpretazioni strutturali pertinenti alla storia del
terreno dall’analisi delle foto aeree. Se la copertura vegetale
è densa la fotogeologia si basa su ipotesi che necessitano di
rilevamenti diretti. Se il rilevamento geologico diretto risulta non
essere esaustivo, gli aspetti geomorfologici possono fornire quegli
elementi interpretativi necessari al completamento dell'informazione.
Oltre a quelle citate, si potrebbero commentare altri numerosi aspetti
dell'importanza della Geomorfologia nello studio del territorio, sulla
distribuzione delle zone urbanizzate e sulla configurazione del paesaggio.
Trascurare l'importanza del contributo della Geomorfologia può
risultare pericoloso come recenti avvenimenti hanno ampiamente dimostrato
(Valtellina, Sarno, dissesti nell’imperiese...)
Al fine di evitare questi disastri sarebbe necessaria, come in effetti
da tempo avviene in alcuni Paesi, una produzione cartografica regionale
mediante la quale sia possibile mettere in relazione le varie componenti
del territorio, sia naturali che antropiche.
La superficie terrestre, come già accennato nei precedenti capitoli,
in quanto interfaccia tra idrosfera, litosfera ed atmosfera è
sede di continui scambi di materia ed energia e, di conseguenza, è
sede di svariati ed intensi fenomeni che concorrono al suo modellamento.
|
Fig. 13.1 Ripartizione della grandi regioni strutturali delle
terre emerse (secondo vari autori).
1) Antichi scudi (prevalenti rocce cristalline); 2) coperture sedimentarie:
regioni dette “di piattaforma” con formazioni sedimentarie
orizzontali o debolmente dislocate, sottoposte ad erosione e poggianti
su basamento cristallino; 3) resti di antiche catene montuose (corrugamenti
dell’Era Primaria) già soggette a spianamenti e talora
dislocate da movimenti più recenti; 4) catene montuose di
corrugamento recente (Terziario e Quaternario, in qualche caso Secondario);
5) grandi pianure di sedimentazione recente; 6)grandi espandimenti
di rocce laviche (varie età); 7) grandi zone di frattura
e Graben; 8) archi insulari; 9) margine esterno della piattaforma
continentale (dov’è più esteso). (Da “Geomorfologia”
G.B. Castiglioni)
|
Le forme della superficie terrestre, così come noi oggi le osserviamo,
sono il risultato dell’azione congiunta degli agenti morfogenetici
sia endogeni che esogeni.
Costruttori i primi, demolitori i secondi in un’alternanza di
processi talora sincroni, costituiscono quello che comunemente è
definito sistema morfogenetico.
Il sistema morfogenetico si esplica attraverso “agenti”
che determinano “processi” che hanno come risultato “forme”.
Agenti endogeni sono quelli che operano dall’interno della terra
(ad esempio la dinamica delle zolle, i vulcani ecc.) e, come detto più
sopra, “producono” forme; queste, al contatto con gli agenti
esogeni che operano sull’interfaccia superficie-atmosfera, vengono
“attaccate” e demolite da un insieme di processi elementari
di natura fisico-chimica che, considerati globalmente, costituiscono
il fenomeno erosivo.
Nel sistema morfogenetico, in funzione della frequenza ed efficacia,
si distinguono:
· processi dominanti: quelli che svolgono l’azione più
marcata sull’ambiente, determinando il “tipo” di paesaggio.
· processi accessori: accompagnano il processo dominante ma svolgono
un’azione meno incisiva.
· processi ausiliari: che possono essere presenti anche solo
casualmente.
I processi, inoltre, agiscono su scale di tempo diverse e con meccanismi
di retroazione, o feedback, che ne complicano gli effetti.
La sovrapposizione di processi, legati alle diverse condizioni morfogenetiche
che hanno interessato una certa zona, si riflette spesso nella difficoltà
di ricostruzione dell’evoluzione che ha portato alle forme attuali.
 |
Fig. 13.2 Esempio di forme dovute
a processi esogeni: una valle fluviale a meandri (valle della
Senna verso la foce). (Da “Geomorfologia” G.B. Castiglioni). |
 |
Foto 13.6 Andamento meandriforme di un
torrente di alta montagna; Ande argentine. (foto G. Paliaga) |
 |
Fig. 13.3 Grandi forme generate principalmente da processi endogeni:
l’Arcipelago Indonesiano offre esempi di catene montuose
in formazione, fiancheggiate da fosse oceaniche anch’esse
attive.
(Da “Geomorfologia” G.B. Castiglioni)
|
 |
Fig. 13.4 Aree di maggiore mobilità
attuale della crosta terrestre (fonti diverse) in base alla tettonica
a zolle. Il sollevamento glacioisostatico attuale è la prosecuzione
(ormai attenuata) del sollevamento svoltosi con maggior velocità
alla fine dell’ultima glaciazione.
1) Principali dorsali oceaniche, da cui inizia il movimento di espansione
della crosta oceanica (frecce; velocità relativa in cm/anno);
2) fosse oceaniche ed altre zone di subduzione o inghiottimento
crostale. I numeri negativi indicano la velocità di raccorciamento
crostale (cm/anno). 3) Zone instabili per attività tettonica
lungo le fasce orogeniche alpino-himalayane, circumpacifiche e lungo
le fratture dell’Africa orientale; 4) zone di sollevamento
glacio-isostatico con velocità superiore a 5 mm/anno; 5)
idem con velocità minore di 5 mm/anno. (Da “Geomorfologia”
G.B. Castiglioni).
|
Tra le diverse Scuole di pensiero che si sono cimentate nell’interpretazione
e nella spiegazione della morfologia terrestre, alcune hanno privilegiato
le componenti endogene, altre le esogene.
La visione endogena privilegia le azioni della tettonica, al punto di
considerare l’analisi morfostrutturale come strumento di ricerca
prevalente.
Questo tipo di approccio ha fornito buoni risultati in regioni caratterizzate
da dinamica crostale recente, come ad esempio l’Italia.
La visione climatica invece considera come fondamentale la relazione
tra le forme e le caratteristiche climatiche responsabili della degradazione
delle rocce.
Secondo questa teoria ogni litologia subisce un’evoluzione diversa
in funzione del regime climatico vigente, che regola modalità
e intensità dei processi.
La prima importante teoria della morfogenesi su basi climatiche è
quella detta “ciclo di erosione normale” elaborata dal geografo
americano William Morris Davis all’inizio del secolo (DAVIS, 1922).
Secondo Davis l’agente normale dell’erosione, cioè
quello dominante, è l’acqua incanalata.
Egli si limitò a considerare solamente le condizioni di evoluzione
in clima umido, precludendo l’applicazione della teoria a regioni
caratterizzate da condizioni diverse.
Il geologo tedesco W. Penck criticò aspramente Davis, ritenendolo
colpevole di non aver tenuto in considerazione il ruolo svolto dall’attività
tettonica.
La risposta della Scuola di Davis consistette nella riformulazione della
teoria in termini policiclici, ossia tenendo conto dell’intervento
dell’attività svolta dalla tettonica durante l’evoluzione
dei versanti.
Un approccio diverso all’interpretazione dell’evoluzione
delle forme superficiali è quello della geomorfologia climatica
zonale sviluppata a partire dal 1950, ad opera principalmente di A.
Cholley e J.Budel.
Secondo questa visione le tre azioni elementari della morfogenesi, ovvero
l’alterazione, il trasporto e la sedimentazione, sono guidate
dagli agenti geomorfici fondamentali, i quali sono originati dalle varie
combinazioni degli elementi climatici.
Il clima diviene così il vero responsabile del modellamento della
superficie terrestre.
Inoltre, dato che i tipi fondamentali di clima terrestre sono distribuiti
secondo fasce di paralleli, vengono individuati diversi agenti geomorfici
principali, ognuno dei quali dominante nelle varie zone climatiche.
Per questa ragione la geomorfologia climatica in senso stretto è
stata definita “zonale”, intendendo una distribuzione dei
paesaggi morfologici secondo fasce climatiche.
A tale scopo sono stati elaborati diversi schemi da J. Budel, da J.
Tricart ed A. Cailleux.
Un approccio ancora diverso è quello della geomorfologia dinamica,
come proposto da A. N. Strahler nel saggio del 1952 “Dynamic Basis
for Geomorphology”.
Strahler propose una rottura con la tradizione descrittiva della scienza,
affermando che lo scopo della geomorfologia dovesse essere lo studio
delle funzioni prodotte dagli elementi di una struttura e delle relazioni
tra di esse.
Tale studio deve essere legato alle conoscenze fisiche e chimiche ed
alla quantificazione dei processi.
In questo modo l’approccio ai problemi della genesi delle forme
viene spostato dallo studio della loro geometria a quello dei processi
che le hanno prodotte.
Questa teoria, definita funzionalista, individua come concetto fondamentale
quello dell’equilibrio dinamico del sistema geomorfico, attraverso
la quantificazione dei processi.
Tale quantificazione è stata espressa inizialmente su basi statistiche,
per poi venire affiancata da formulazioni matematiche sempre più
sofisticate, fino a giungere a modellizzazioni di portata sempre più
ampia.
Gli ambiti che si sono avvalsi maggiormente di questo approccio quantitativo
sono stati quelli dello studio dell’evoluzione del reticolo idrografico,
dell’erosione dei versanti e dei litorali.
Un ulteriore sviluppo della geomorfologia dinamica si è verificato
in seguito all’applicazione delle teorie probabilistiche e del
concetto di entropia al sistema geomorfico.
Si è così superato il concetto davisiano di ciclo di erosione
operante in un sistema chiuso, che quindi può evolvere solo verso
stati ad entropia crescente, con quello di sistema geomorfico aperto
in cui possa verificarsi un costante scambio di energia, in modo da
mantenere costante l’entropia o farla diminuire.
La geomorfologia teorica, in anni recenti, ha avuto grande impulso grazie
ai lavori di A.E. Scheidegger ed altri, impostati sul formalismo matematico
e volti alla comprensione dei processi e delle dinamiche.
 |
Foto 13.7 Valle di tipo glaciale:
profilo ad U, fianchi ripidi e testa della valle a circo sono
stati generati dall’azione erosiva di un ghiacciaio ormai
ritirato e presente solo alle quote più elevate; il processo
dominante era quindi rappresentata dall’azione del ghiacciaio,
mentre oggi questo ruolo è svolto dai processi di tipo
periglaciale e dall’azione incisiva del torrente che, mediante
l’incisione lineare, tenderà a trasformare il profilo
della valle a V. Valnontey (Valle d’Aosta). (foto G. Paliaga). |
 |
Foto 13.8 Valle glaciale, Islanda; valgono
le stesse considerazioni della foto precedente. (foto G. Paliaga) |
 |
Foto 13.9 Ambiente glaciale di alta montagna:
gruppo del monte Rosa tra punta Gnifetti, a destra, ed il m. Castore.
(foto G. Paliaga) |
 |
Foto 13.10 Crepacci e seracchi, in primo
piano, e lingue glaciali con morene laterali e mediane. Versante
nord del gruppo del m. Rosa. (foto G. Paliaga) |
 |
Foto 13.11 Ghiacciai pensili. Parete
nord del Lyskamm, con il Cervino sullo sfondo. (foto G. Paliaga) |
 |

|
Foto 13.13 - 13.14
A sinistra seracchi e roccia levigata dall’azione del ghiaccio
(roccia montonata).
A destra crepacci e piccolo ponte di neve. (foto G. Paliaga)
|
IL CICLO DI EROSIONE NORMALE
Davis (1884), fu il primo ad introdurre esplicitamente il fattore tempo
nell’analisi geomorfologica, attraverso la nozione di ciclo.
L’idea alla base della teoria, risiede nel principio secondo cui
“le stesse forme elementari di una data massa strutturale sono,
ad ogni stadio della sua evoluzione fisiografica, riferite sistematicamente
le une alle altre” (Davis, 1922, p.595).
Il significato di questa affermazione sta’ nell’intimo legame
tra le forme che costituiscono un paesaggio, e le forze in equilibrio
che agiscono su di esso.
L’evoluzione è vista come il risultato del continuo aggiustamento
dell’equilibrio, che quindi diventa il vero e proprio concetto
di base della teoria.
Le forme del paesaggio vengono considerate regolarizzate, quando le
forze che agiscono su di esse si trovano in equilibrio.
Secondo Davis in mancanza di equilibrio, nessun legame funzionale è
in grado di unire i diversi elementi delle forme risultanti.
Lo stadio di equilibrio si realizza dapprima in vicinanza del livello
di base, la foce del corso d’acqua ovvero il mare o un lago (si
veda il cap. 14), per estendersi durante l’evoluzione all’intero
bacino.
In questo modo il fiume impone in ogni punto del profilo la pendenza
corrispondente alle condizioni locali e provvisorie di equilibrio.
Il profilo così regolarizzato non cessa mai di evolvere; al contrario
il continuo riaggiustamento avviene lungo tutta la sua lunghezza, mantenendo
come unico punto fisso il livello di base.
Davis, estendendo i principi relativi all’evoluzione dei letti
fluviali a quella dei versanti, poteva in questo modo asserire la vittoria
del principio dell’equilibrio all’intera regione.
Secondo questa impostazione inoltre, stabilì un legame rigoroso
ed irreversibile tra i vari stadi del ciclo, raggruppando le forme cicliche
in serie evolutive, la cui analisi permise di ricostruire l’evoluzione
geomorfologica e quindi una scala cronologica relativa.
Proprio questo era lo scopo di Davis.
In base a questi concetti, egli ha usato la teoria del ciclo di erosione
normale per descrivere l’evoluzione del paesaggio, inserendo le
forme all’interno di un quadro evolutivo.
La teoria di Davis viene definita ciclica in quanto prevede un’evoluzione
in cui stadio iniziale e finale coincidono.
Il fattore di innesco del ciclo è individuato in un innalzamento
tettonico regionale, cui segue l’azione di smantellamento erosivo
operato dagli agenti esogeni in condizioni di assenza di attività
tettonica, fino a tornare ad uno stadio dominato da una morfologia pianeggiante.
La condizione di assenza di attività tettonica equivale a considerare
costante nel tempo il livello di base, il ché rappresenta il
limite più forte dell’intera teoria.
IL CICLO DI EROSIONE NORMALE |
Davis (1884), fu il primo ad introdurre esplicitamente il fattore tempo
nell’analisi geomorfologica, attraverso la nozione di ciclo.
L’idea alla base della teoria, risiede nel principio secondo cui
“le stesse forme elementari di una data massa strutturale sono,
ad ogni stadio della sua evoluzione fisiografica, riferite sistematicamente
le une alle altre” (Davis, 1922, p.595).
Il significato di questa affermazione sta’ nell’intimo legame
tra le forme che costituiscono un paesaggio, e le forze in equilibrio
che agiscono su di esso.
L’evoluzione è vista come il risultato del continuo aggiustamento
dell’equilibrio, che quindi diventa il vero e proprio concetto
di base della teoria.
Le forme del paesaggio vengono considerate regolarizzate, quando le
forze che agiscono su di esse si trovano in equilibrio.
Secondo Davis in mancanza di equilibrio, nessun legame funzionale è
in grado di unire i diversi elementi delle forme risultanti.
Lo stadio di equilibrio si realizza dapprima in vicinanza del livello
di base, la foce del corso d’acqua ovvero il mare o un lago (si
veda il cap. 14), per estendersi durante l’evoluzione all’intero
bacino.
In questo modo il fiume impone in ogni punto del profilo la pendenza
corrispondente alle condizioni locali e provvisorie di equilibrio.
Il profilo così regolarizzato non cessa mai di evolvere; al contrario
il continuo riaggiustamento avviene lungo tutta la sua lunghezza, mantenendo
come unico punto fisso il livello di base.
Davis, estendendo i principi relativi all’evoluzione dei letti
fluviali a quella dei versanti, poteva in questo modo asserire la vittoria
del principio dell’equilibrio all’intera regione.
Secondo questa impostazione inoltre, stabilì un legame rigoroso
ed irreversibile tra i vari stadi del ciclo, raggruppando le forme cicliche
in serie evolutive, la cui analisi permise di ricostruire l’evoluzione
geomorfologica e quindi una scala cronologica relativa.
Proprio questo era lo scopo di Davis.
In base a questi concetti, egli ha usato la teoria del ciclo di erosione
normale per descrivere l’evoluzione del paesaggio, inserendo le
forme all’interno di un quadro evolutivo.
La teoria di Davis viene definita ciclica in quanto prevede un’evoluzione
in cui stadio iniziale e finale coincidono.
Il fattore di innesco del ciclo è individuato in un innalzamento
tettonico regionale, cui segue l’azione di smantellamento erosivo
operato dagli agenti esogeni in condizioni di assenza di attività
tettonica, fino a tornare ad uno stadio dominato da una morfologia pianeggiante.
La condizione di assenza di attività tettonica equivale a considerare
costante nel tempo il livello di base, il ché rappresenta il
limite più forte dell’intera teoria.
 |
Fig. 13.5 Rappresentazione
schematica del ciclo di erosione normale di Davis. Si faccia il
confronto con la fig. 13.6. (Da “Earth’s changing
surface”, SELBY ). |
Ripartizioni del ciclo di Davis
Stadio di giovinezza:
E’ la condizione in cui la regione si trova dopo il massimo del
sollevamento tettonico, la fase quindi di iniziale forte squilibrio.
La gran parte dell’energia resa disponibile in questo modo viene
impiegata per “lavorare” le forme, tendendo al raggiungimento
di un nuovo equilibrio.
Le caratteristiche peculiari sono fornite dall’alto potere erosivo
dei fiumi che approfondiscono le nuove valli che risultano quindi strette
e profonde; le valli affluenti si sviluppano per erosione regressiva
secondo analoghe caratteristiche morfometriche.
Il reticolo idrografico risulta dominato dalle caratteristiche tettoniche
e strutturali ed i versanti risultano fortemente acclivi e dominati
da forte instabilità.
Tra una valle e l’altra si conservano lembi della topografia originaria,
generata dalle deformazioni tettoniche.
Stadio di maturità:
Il reticolo idrografico risulta più ramificato, rendendo più
articolato il rilievo; inoltre l’approfondimento delle valli è
giunto al massimo.
I versanti sono caratterizzati da una acclività minore, su cui
la pedogenesi può operare un maggior sviluppo del suolo ed i
fondovalle iniziano ad allargarsi lungo alcuni tratti.
Durante questo stadio, prima lungo i corsi d’acqua e successivamente
lungo i versanti, si presentano dei profili regolarizzati, cioè
corrispondenti ad un utilizzo ottimale dell’energia degli agenti
erosivi.
Tali agenti infatti, tramite l’azione di modellamento, hanno fornito
alle forme i profili che oppongono minor resistenza alla loro azione.
Condizione affinché si verifichi questo tipo di evoluzione è
che il quadro tettonico rimanga in stato di quiete e quindi che il livello
di base rimanga costante.
Stadio di senilità:
E’ caratterizzato inizialmente da rilievi bassi e valli larghe
con fianchi poco inclinati, caratterizzate da lente forme di degradazione.
Il paesaggio giunge al ristabilimento completo dell’equilibrio
con la fase di penepiano in cui le forme appaiono appunto quasi spianate.
Il penepiano è quindi una superficie di spianamento, generata
dallo smantellamento in condizioni subaeree dei rilievi creati dai movimenti
tettonici, in cui si riescono però ancora a distinguere i sistemi
vallivi.
In termini energetici rappresenta il ristabilimento dell’equilibrio
dopo l’evoluzione indotta dall’attività tettonica.
Limiti della teoria del ciclo di erosione normale
Il limite più forte e che espose Davis alle critiche più
feroci, è fornito dalla mancanza di attività tettonica
durante l’intero ciclo.
Si suppone il sollevamento iniziale come un evento isolato ed istantaneo,
aspetto questo poco realistico da un punto di vista tettonico, mentre
non vengono considerati i continui aggiustamenti isostatici relativi
all’asportazione del materiale eroso.
Un altro limite è individuato dal fatto che le caratteristiche
erosive vengono considerate costanti entro ogni fase ed entro l’intero
ciclo.
Il modello inoltre venne sviluppato per condizioni definite “normali”
dall’autore, corrispondenti cioè a regioni dominate da
clima umido e da processi di tipo fluviale.
Non si tengono presenti quindi né i processi relativi a regimi
climatici diversi, né le variazioni climatiche con le connesse
oscillazioni eustatiche.
Questi temi saranno in seguito ripresi e formalizzati da altri ricercatori
nella geomorfologia climatica.
In realtà, per stessa ammissione dell’autore, la teoria
voleva avere come scopo principale quello didattico, e fornire le basi
scientifiche a descrizioni empiriche delle forme superficiali.
Inoltre al tempo di Davis le conoscenze circa i meccanismi orogenetici
e tettonici erano tali da non permettere una visione più realistica.
Il merito di Davis risiede comunque nell’aver affrontato per primo
l’inserimento delle forme superficiali in un contesto evolutivo
e di aver così introdotto il concetto di tempo in geomorfologia.
 |
Fig. 13.6 Schema di evoluzione
del reticolo idrografico nei diversi stadi evolutivi: a) stadio
di giovinezza, b) stadio di maturità, c) stadio di senescenza.
Modificato da Scheidegger (1961). |
LA TEORIA ACICLICA DI W. PENCK
Il geologo tedesco W. Penck fu il primo forte critico della teoria di
Davis.
Egli considerava lo studio delle forme solo come uno dei mezzo di ricostruzione
dei ritmi paleotettonici, negandone quindi il ruolo indipendente visto
da Davis, e negando anche il ruolo autonomo di cui la geomorfologia
si era appena dotata.
Il punto centrale della sua critica risiedeva nella necessità
di mancanza di attività tettonica richiesta da Davis; secondo
Penck, ogni manifestazione tettonica in grado di rompere l’equilibrio
rappresenterebbe un incidente e renderebbe imprevedibile l’evoluzione
delle forme.
Penck spinse la sua critica fino al punto di produrre un manifesto anti-Davis
in cui, tra l’altro, affermava: “la storia geologica non
presenta molti esempi di zone di stabilità tettonica molto estese
come richiesto dalla peneplanazione di Davis; questo corrisponde invece
ad un caso particolare di evoluzione geomorfologica. Il caso più
comune è quello in cui le manifestazioni di origine esogena ed
endogena sono concomitanti."
Secondo l’opinione di Penck il risultato delle loro interazioni
si manifesta dal punto di vista morfologico attraverso la scultura delle
forme del rilievo, e sul piano geologico attraverso il deposito di serie
sedimentarie alimentate dall’erosione sintettonica.
L’approccio di Penck allo studio dei problemi di morfogenesi,
consiste quindi nel considerare il rapporto di intensità tra
fattori esogeni ed endogeni (Penck 1924, Crech, Boswell, 1953), senza
la necessità di introdurre il concetto di ciclo.
Penck considerava lo sviluppo di un bacino come la somma dello sviluppo
di tutti i versanti in esso contenuti.
Egli considerava lo sviluppo dei pendii come un processo nel quale possono
essere individuati, al più, alcuni stati quasi stazionari:
1. lo sviluppo del waxing (stadio deformativo), nel quale l’uplift
(sollevamento tettonico) è più veloce dei processi di
denudazione.
2. lo sviluppo stazionario, in cui l’uplift e processi erosivi
si equivalgono.
3. Lo sviluppo del waning (stadio di modellamento), in cui il tasso
di erosione è più alto di quello di uplift, producendo
pendii con il profilo concavo.
In questo modo Penck finì per privilegiare il peso delle componenti
endogene, ignorando quelle esogene e ponendo così una limitazione
contraria rispetto a quella di Davis.
Secondo Penck infatti i fenomeni erosivi, sarebbero permanentemente
controllati dalla componente endogena della morfogenesi.
I RILIEVI POLICICLICI
Uno dei limiti della teoria di Davis è rappresentato dal fatto
che l’evoluzione del sistema avvenga in assenza di attività
tettonica.
Tale limite è stato superato da alcuni geomorfologi francesi
di inizio secolo introducendo il concetto di evoluzione policiclica.
Si assume che ogni sollevamento tettonico che intervenga prima del completamento
del ciclo ne causi l’interruzione, con l’inizio di una nuova
fase.
Il risultato è che nel sistema saranno presenti forme correlate
ai diversi cicli, finché l’evoluzione di ognuno di essi
non ne comporti la totale asportazione.
Ad ogni intervento dell’attività tettonica corrisponde
una variazione relativa del livello di base e quindi l’ingresso
dei fiumi in una nuova fase erosiva, cui segue l’approfondimento
regressivo delle valli a partire dalle zone in cui i sollevamenti tettonici
hanno prodotto il maggior dislivello.
Tale fenomeno viene indicato con il termine di ringiovanimento.
Lo studio ed il riconoscimento delle diverse generazioni di forme permette,
ove il loro livello di conservazione sia sufficiente, di risalire a
sequenza, durata ed intensità delle fasi corrispondenti.
Tale approccio permette di stabilire una cronologia relativa dei diversi
cicli erosivi, che può essere affiancata agli altri metodi di
cronologia quali la stratigrafia e la datazione assoluta, testimoniando
le variazioni del livello di base.
 |
Fig. 13.7 Schema dei profili
trasversali delle valli: a sinistra evoluzione ciclica secondo
Davis (sollevamento, stadio di giovinezza, di maturità
e di vecchiaia); a destra evoluzione policiclica: un nuovo sollevamento
regionale causa l’inizio di un nuovo ciclo erosivo (1);
in (3) stadio di maturità del secondo ciclo, in (4) inizio
di un nuovo ciclo. Modificato da CASTIGLIONI (1986). |
IL CONCETTO DI RITMO IN GEOMORFOLOGIA
Sia la visione policiclica, che deriva dalla teoria di Davis, che quella
aciclica di Penck devono essere osservate come due parti complementari
dell’evoluzione geomorfologica.
Osservando il problema dell’evoluzione geomorfologica secondo
un’ottica più aperta, e quindi più generale, Klein
(1985) è giunto ad una teoria che introduce il concetto di ritmo
in geomorfologia.
Egli considera l’evoluzione geomorfologica come guidata da tre
ritmi fondamentali: tettonici, eustatici e bioclimatici.
I ritmi tettonici ed eustatici circoscrivono le masse continentali esposte
agli agenti di erosione, mentre quelli bioclimatici controllano il dinamismo
dei sistemi di erosione.
Per quantificare ed analizzare gli effetti distinti dei movimenti tettonici
ed eustatici, Klein ha elaborato l’indice di ablazione potenziale
(I.A.P.), secondo la seguente definizione (per i simboli si faccia riferimento
alla figura 13.8):

 |
Fig.13.8 Indice di Ablazione
Potenziale di Klein. o-o: livello di base; S: superficie corrispondente
al livello di base; S0: superficie topografica al tempo t0; S1:
superficie topografica al tempo t1; V0: volume al di sopra del
livello di base al tempo t0 ; V1: volume al di sopra del livello
di base al tempo t1. Modificato da Klein (1985). |
L’indice fornisce una misura della quantità di materiale
che deve essere asportato dai fattori erosivi affinché si raggiunga
una nuova situazione di equilibrio dopo un innalzamento tettonico.
L’analisi delle variazioni dell’indice permette di ricavare
le caratteristiche dell’evoluzione geomorfologica della regione
in studio.
L’autore individua i due casi estremi:
· Variazioni ampie e rapide dell’indice I.A.P. comportano
la coesistenza di diverse generazioni di forme di equilibrio, che si
manifestano come discontinuità nei profili orografici.
· L’autore definisce questa evoluzione come ciclica o policiclica,
riconoscendo in essa i caratteri individuati dalla teoria di Davis.
· Variazioni lente e modeste dell’I.A.P. corrispondono
invece ad un graduale ristabilirsi dell’equilibrio; le forme ereditate
subiscono un modellamento graduale, senza che si manifestino discontinuità
nei profili.
· Questa tipologia di evoluzione viene definita dall’autore
come aciclica.
Il fattore che determina il modo evolutivo dominante, è individuato
dalla velocità dei movimenti eustatici e tettonici.
Esiste cioè una velocità critica al di sotto della quale
prevale il modo aciclo, mentre al di sopra di essa l’evoluzione
risulta di tipo ciclico o policiclico.
Le due tipologie di evoluzione geomorfologica risultano complementari;
esse possono infatti manifestarsi contemporaneamente in unità
morfostrutturali contigue o alternarsi durante lo sviluppo di una singola
unità morfostrutturale.
CURVA IPSOGRAFICA, TEORIA DELL’EQUILIBRIO E DELLA DIVERSA
ATTIVITA’
Uno dei compiti fondamentali della geomorfologia risiede nel fornire
una descrizione della superficie terrestre, indipendentemente dall’interpretazione
delle forme.
Questo compito descrittivo viene assolto dallo studio morfometrico,
che fornisce una quantificazione delle caratteristiche delle forme superficiali.
Strahler (1957), superando le descrizioni su basi qualitative viste
precedentemente, propose una classificazione del paesaggio in termini
evolutivi, su basi quantitative.
L’approccio quantitativo permette di superare le imprecisioni
e le ambiguità proprie di quello qualitativo, fornendo uno strumento
oggettivo di confronto tra zone diverse.
La classificazione proposta da Strahler (1957) è basata sulla
definizione di curva ipsometrica, ossia di curva cumulativa che rappresenta
la percentuale di area al di sopra di un dato livello entro un bacino.
Il valore così ottenuto viene diviso per l’area totale
del bacino, in modo da ottenere una quantità normalizzata e quindi
confrontabile.
La curva non è di tipo Gaussiano e quindi viene caratterizzata
tramite i valori di asimmetria e curtosi.
L’età del paesaggio viene definita in base alla forma della
curva così ottenuta:
· Convessità implica paesaggio giovane
· Linearità implica paesaggio maturo
· Concavità implica paesaggio senescente
Una classificazione su basi quantitative si ottiene dividendo l’integrale
della funzione, calcolato numericamente, per l’area del triangolo
che si ottiene congiungendo le intercette della curva con l’asse
delle ascisse e delle ordinate.
Indicando tale valore con a, si ottiene la seguente classificazione:
· 2 = a = 0.6 paesaggio giovane
· 0.6 > a = 0.4 paesaggio maturo
· 0.4 > a = 0 paesaggio senescente
 |
Fig. 13.9 Curve ipsometriche
e stadi evolutivi. Da: Scheidegger (1987). |
Un approccio diverso al problema dell’interpretazione dell’evoluzione
del paesaggio è quello fornito dalla teoria dell’equilibrio.
Si considera il paesaggio come il risultato dell’equilibrio tra
le forze che agiscono su di esso.
Le forme del paesaggio tendono ad essere preservate se le forze risultano
equilibrate; l’uscita dall’equilibrio comporta la scomparsa
di alcune di esse e la formazione di altre.
Il principio della diversa attività è stato elaborato
da Crickmay (1959, 1960) e rappresenta un’ulteriore critica al
concetto di ciclo geomorfologico.
Si ritiene che i processi esogeni siano caratterizzati da diversi livelli
di attività.
Secondo l’autore il processo dell’arretramento dei versanti
si verifica solo se un corso d’acqua, o l’azione del mare,
ne incidono la base.
Fintanto che non si verifica il taglio del piede del versante, non si
verifica l’arretramento dello stesso.
I processi di denudazione vengono innescati quindi dall’azione
di migrazione laterale dei meandri di un corso d’acqua.
Secondo questo principio possono conservarsi forme definite giovani
secondo la teoria di Davis, anche in stadi evolutivi avanzati.
L’autore individua diversi stadi nello sviluppo del paesaggio,
senza assumere alcuna ciclicità tra di essi.
Lo stadio anagenetico è caratterizzato dalla prevalente azione
delle forze endogene, terminate le quali lo sviluppo dei processi di
denudamento, come sopra precisati, individua lo stadio catagenetico.
|